Agostino e la filosofia
Brani scelti:
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Agostino è una figura dominante dell’occidente cristiano. Filosofo, teologo, mistico, oltre che vescovo, ha esercitato la sua influenza sulle generazioni successive in modo profondo e continuo. Nelle sue opere, attualmente ancora molto lette, sono svolti gli eterni problemi dell’essere, della verità, dell’amore, della libertà, della pace, del male.
Che posto occupa Agostino nella storia della filosofia?
Immaginiamo di trovarci in una “galleria degli antenati” così come ipotizzato dal filosofo tedesco Hegel in un famoso topos che descrive la “Storia della Filosofia”. Per ciascun filosofo cogliamo un aspetto che ne caratterizza il pensiero, come il ritratto ferma in un’espressione le caratteristiche di un volto. E’ evidente, tuttavia, che un singolo aspetto non potrà descrivere la complessità di un’intera filosofia.
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Avremo, quindi, il ritratto di Cartesio (“Cogito ergo sum”), di Platone (“il mondo delle Idee”), di Aristotele (“la Metafisica”), di Machiavelli (“essere e dover essere”), di Popper (“il modus tollens”), di Camus (“rivolta e rivoluzione”), di Tommaso d’Aquino (“l’essere e l’essenza”), di Bonaventura da Bagnoregio (“Itinerarium mentis in Deum”), di Kant (“critica della ragion pura”) e così tutti gli altri. E Agostino?
Il ritratto di Agostino sarà la scoperta dell’autocoscienza: “Si fallor, sum”, vale a dire che anche nel dubbio di sbagliare non viene mai meno la certezza dell’autocoscienza.
Per capire meglio questo passaggio, dobbiamo riflettere sull’evoluzione del pensiero di Agostino. In una prima fase della sua vita, egli aderisce al manicheismo, quindi attraversa una fase scettica, da cui si libera per avvicinarsi al platonismo e neo-platonismo (accenneremo in seguito a ciascuna di queste scuole di pensiero). Nella fase matura della sua vita, egli elabora una filosofia personalissima e indipendente da quella neo-platonica, anche se da questa fortemente ispirata.
Lo scetticismo ci porta, come sappiamo, a revocare in dubbio tutte le cose della cui esistenza non siamo assolutamente certi e, in primo luogo, il mondo esterno e l’anima delle altre persone, data la forte soggettività dei nostri contenuti mentali.
Nel De Magistro, Agostino si chiede:
Se entrambi vediamo che è vero quel che dici tu ed entrambi vediamo che è vero quel che dico io, dove mai lo vediamo? Non possiamo vederlo in te, perchè ovviamente io non sono in grado di leggere nel tuo animo; né possiamo vederlo in me, per analoga ragione.
Se possiamo dubitare di tutto, non possiamo, tuttavia, dubitare del pensiero che dubita (si fallor, sum) e questo porta Agostino a sperare di trovare la verità nell’interiorità della propria coscienza.
Il tema principale del pensiero agostiniano è dunque costituito dal richiamo all’interiorità. In essa si troverà il punto di partenza, fermo e indubitabile, della ricerca filosofica e teologica.
Approfondendo la propria interiorità l’uomo scopre due generi di verità assolute: il primo, costituito dalle verità logico-matematiche (che sono verità analitiche a priori ? sintetiche [...]) e dai principi morali; il secondo dalla coscienza della propria indubitabile esistenza. L’assolutezza di queste verità ci conduce alla somma verità, cioè a Dio.
L’originalità di queste argomentazioni sta nel fatto che per la prima volta nella personalità di Agostino la speculazione filosofica cessa di essere puramente oggettiva per identificarsi nell’uomo stesso che la istituisce.
Il problema teologico è in Agostino il problema dell’uomo Agostino e della sua inquietudine. Ciò che Agostino ha dato agli altri è ciò che egli ha conquistato per se stesso.
L’atteggiamento della confessione non è limitato allo scritto famoso, ma è l’atteggiamento costante del pensatore e dell’uomo d’azione che non ha altro scopo che di venire in chiaro con se stesso.
Egli dichiara di voler conoscere solo l’anima e Dio e si mantiene fedele a questo programma. L’anima, cioè l’uomo interiore, l’io nella sua vera natura. Dio, cioè l’essere nella sua trascendenza senza del quale non è possibile riconoscere la verità dell’io. E’ chiaro, infatti, che non si può identificare tale verità con la ragione umana (vedi lo scetticismo), ma essa costituisce piuttosto il canone cui la ragione deve sottostare.
Naturalmente, nella radicale interiorizzazione della ricerca filosofica, Agostino ha dei predecessori: i neo-platonici e tra loro Plotino. Ma per questi filosofi il ritorno a se stesso, l’atteggiamento dell’introspezione, può essere solo privilegio del saggio; per Agostino può essere proprio di ogni uomo. Inoltre, a differenza di quella platonica, la ricerca agostiniana si radica nella religione perchè fin dall’inizio egli ne abbandona l’iniziativa a Dio. Dio determina e guida la ricerca umana, ma questo, come vedremo, non costituisce una prevaricazione dell’uomo di chiesa sul pensatore.
La modernità del pensiero di Agostino, per quanto siano mutati i termini del problema, ci è testimoniata dai continui richiami del mondo culturale e dei mass media alle opere di questo pensatore, ma sopratutto (e in maniera ben più profonda) dall’elaborazione dei temi agostiniani da parte di importanti filosofi del novecento, tra i quali spicca la personalità di Hannah Arendt.
La Arendt nasce in Germania da una famiglia ebrea. Studia con Martin Heidegger, ma è costretta a lasciare la Germania dopo l’ascesa al potere di Hitler. Si rifugia in Francia, ma non riesce a scampare all’internamento in un campo di concentramento. Dopo la guerra, approda a New York dove vive fino alla morte. La Arendt è autrice di opere filosofiche che le danno un posto di primo piano nel campo della filosofia e della cultura politica: Le origini del totalitarismo, Vita activa e La banalità del male (resoconto, rimasto nella storia, del processo al criminale nazista Adolf Eichmann [...]).
Perchè vi parlo di Hannah Arendt? Perchè la stima che questa donna ebrea riserva al pensiero di Agostino è profonda e duratura. Nasce con gli studi di dottorato in Filosofia (Il concetto di amore in Agostino) e continua per tutto l’arco della sua vita, fino all’ultima opera rimasta incompiuta e pubblicata postuma (La vita della mente). In queste pagine, la figura di Agostino emerge come quella del pensatore che, dopo la conversione, non abbandona l’uso corretto della ragione per abbracciare in modo fideistico la religione cristiana, ma che, al contrario, scopre ed evidenzia le implicazioni filosofiche della sua nuova fede.
Per la filosofa, l’originalità di Agostino consiste innanzitutto nel gettare un ponte tra l’antichità e il cristianesimo, “inverando l’eros greco attraverso àgape cristiana”.
Il concetto di àgape, infatti, è radicalmente opposto a quello di eros, in quanto l’àgape esclude ogni desiderio e può essere solo donata da Dio, mentre l’eros nasce dall’egocentrismo umano. Agostino ha cercato una sintesi tra i due tipi di amore: caritas, infatti, indica il dono (àgape), ma anche il desiderio (eros). L’amore cristiano diventa, così, la ricerca del bene e di se stessi, come ha ben sottolineato Benedetto XVI nella recente enciclica sull’amore cristiano “Deus caritas est”.
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Sempre Arendt considera Agostino il primo filosofo che abbia sollevato la cosiddetta questione antropologica (il problema della natura umana):
Quaestio mihi factus sum.
(Io stesso sono divenuto domanda).
Egli si pone due domande fondamentali: “Chi sono io” e “Che cosa sono io”. La prima rivolta dall’uomo a se stesso:
Tu, qui es?
“E io mi rivolsi a me stesso e mi dissi: tu, chi sei tu? E io risposi: Un uomo”.
La seconda rivolta a Dio:
Quid ergo sum, Deus meus? Quae natura sum?
“Che cosa dunque sono io, mio Dio? Qual è la mia natura?
E ancora:
[...] c’è qualcosa dell’uomo (aliquid hominis) che lo spirito dell’uomo che è in lui stesso non conosce. Ma tu, Signore, che lo hai fatto (fecisti eum) conosci ogni cosa di lui (eius omnia).
Si capisce, dunque, che la questione antropologica diventa, in Agostino, una questione sollevata alla presenza di Dio:
[...] nei cui occhi sono divenuto un problema per me stesso.
La risposta alla domanda “Chi sono io” è semplicemente “Tu sei un uomo”, qualunque cosa ciò possa essere. Ma la risposta alla domanda “Che cosa sono io”, cioè che cosa è l’uomo esattamente, può essere data solo da Dio che lo ha creato.
Le domande sull’uomo sono quindi questioni teologiche (non si risolvono con l’uso della sola ragione) e si possono porre (per Agostino come per la Arendt) soltanto nell’ambito di una risposta rivelata divinamente.
L’introspezione porta inevitabilmente ad un ripiegamento in se stessi, a cercare la solitudine isolandosi dal mondo; questo perlomeno in una prima fase della ricerca. In questo senso, Agostino ha esercitato un’influenza decisiva nella storia del monachesimo occidentale.
E’ lo stesso filosofo a diffondere il monachesimo in Africa, prima a Tagaste, suo paese natale, e successivamente a Ippona, dove fonda un monastero, con il quale rimane in contatto anche dopo l’elezione a vescovo.
Agostino torna spesso sui temi che saranno caratteristici della tradizione monastica: la grazia e l’iniziativa divina nel bene che gli uomini possono compiere, l’importanza del lavoro manuale, la lettura della pagina sacra, la preghiera e il suo rapporto con la meditazione interiore, l’amore per la musica.
De musica è, infatti, un dialogo sul ritmo, che insegna a salire dai numeri mutabili al numero immutabile, che è Dio, secondo uno stile chiaramente platonico. In questo contesto, ovviamente, la musica è intesa non come scienza della sensazione sonora, secondo il paradigma moderno, ma come scienza del “numero sonoro”(nella spiegazione dell’armonia), secondo il paradigma matematico di pitagorica memoria.
Allo stesso modo, i monaci, secondo un celebre binomio medievale “musicus et monachus”, hanno usato la musica teorica per associarsi con un canto ordinato alla lode che gli angeli rendono a Dio. Guido d’Arezzo, il più grande tra loro, ammette chiaramente che, proponendo la sua nuova notazione musicale, intende agire “da monaco per dei monaci”.
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Anche il tema agostiniano (e ancora neoplatonico) dell’adesione mistica a Dio, nel momento più alto dell’itinerario ascetico di elevazione interiore, caratterizzerà il pensiero monastico.
Punto di arrivo dell’ascesa mistica è un’intuizione momentanea, insostenibile a lungo, cui si arriva attraverso la conoscenza e l’introspezione, ma che si colloca al di là della conoscenza razionale che pure la prepara. L’inevitabile ritorno al mondo sensibile è un ritorno al dominio della parola finita.
Proprio il tema della parola introduce un altro argomento tipico della riflessione agostiniana prima e della benedettina poi: il silenzio.
In Agostino, il silenzio rappresenta il superamento della conoscenza razionale, discorsiva, che si realizza nei pensieri e si comunica con le parole pronunciate dalla bocca. Egli afferma nelle Confessioni che devono tacere
[...] le immagini della terra, dell’acqua e dell’aria, i cieli e l’anima stessa [...] i sogni e le immagini della fantasia, ogni lingua, ogni segno, tutto ciò che nasce per morire.
Silenzio è superamento di ogni mediazione sensibile per poter udire Dio. Nei monasteri, infatti, “si scrive perchè non si parla” (Jean Leclercq).
L’indubbia difficoltà del mondo contemporaneo ad abbandonarsi al silenzio è forse il sintomo più evidente della sua incapacità non tanto di elevazione interiore, quanto di introspezione e riflessione su se stessi. Un’incapacità di pensare che esprime al meglio il significato della famosa frase di Blaise Pascal: “La cosa più difficile al mondo è pensare”.
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Non solo attraverso l’introspezione l’uomo può cercare Dio, poiché l’impronta dell’essere divino è presente nel nostro animo come in tutto l’universo.
Per il vescovo di Ippona, il mondo e tutte le realtà sensibili sono simboli, segni che parlano all’uomo del loro Creatore e indicano la strada lungo la quale è possibile risalire a Dio.
Tutta l’opera di Agostino (ma successivamente anche di S. Francesco e di S. Bonaventura) è piena di considerazioni sui fenomeni della natura che presi nella loro totalità e interpretati allegoricamente (sulla base di molteplici analogie trinitarie che egli scorge nella natura) mostrano la loro dipendenza dal Creatore.
La pagina sacra sia il libro che ti consente di udire queste cose; il mondo sia il libro che ti consente di vederle. Nei codici le possono trovare soltanto coloro che sanno leggere; nella totalità del mondo può leggere anche l’ignorante. (Enarratio in psalmos)
Il mondo è dunque un libro nel quale può riuscire a leggere anche chi non ha le conoscenze necessarie per comprendere il testo sacro.
L’osservazione del libro della natura coglie i segni del divino attraverso la vista, mentre la lettura della pagina sacra coglie il significato autentico delle cose nei segni scritti, passando attraverso l’udito. Per Agostino e per la tradizione monastica, infatti, la lettura è sempre ascolto, coinvolge sempre la voce e la corporeità. “Nel Medioevo, a differenza di oggi, si legge non tanto con gli occhi, ma con le labbra e con le orecchie, pronunciando la parola e ascoltando quel che si pronuncia, intendendo così le voces paginarum” (Jean Leclercq).
Come abbiamo visto, una delle possibili risposte ai problemi posti dal cristianesimo è rappresentata dalla scelta monastica, intesa come rinuncia ai comportamenti sociali dell’uomo. Ma è stata seguita anche la scelta opposta: quella che consiste nel cristianizzare la vita sociale e diventare protagonisti della vita politica.
Questa tensione tra l’esigenza di un ripiegamento interiore e l’aprirsi al mondo degli uomini e alla politica non è tipica solo del cristianesimo. Nella Cina del periodo Zhou (500 a.C. circa), per esempio, il fiorire del pensiero filosofico vede l’emergere di personaggi quali Laozi, a cui la tradizione attribuisce la paternità del taoismo, e Confucio. Mentre i taoisti predicano la rinuncia al mondo e un ritorno alla semplicità dell’ordine naturale delle cose, il pensiero di Confucio ha una connotazione marcatamente politica ed enuncia i principi atti a ristabilire l’ordine all’interno di una società divisa.
Il De civitate Dei di Agostino non è un’opera essenzialmente politica, anche se molti dei suoi concetti hanno un indubbio rilievo di carattere politico e sono destinati ad avere una grande influenza nei secoli successivi. La prima parte del testo è dedicata alla confutazione delle tesi pagane secondo cui il recente crollo dell’impero romano sarebbe conseguenza di quell’atteggiamento cristiano di estraneità dal mondo che allontana il cittadino dai propri doveri verso lo stato. Il destino di Roma, che era stato glorioso nel culto dei suoi dei, non può rimanere tale se si affermano i valori predicati dai cristiani. Un’accusa questa che avrà grande fortuna anche in tempi più recenti (si pensi alle accuse di Nietzsche rivolte al “nichilismo della debolezza” nella religione cristiana).
Secondo Agostino, non è certo il cristianesimo ad aver rovinato l’impero, ma i suoi vizi, a tal punto diffusi da aver fatto ritenere a Cicerone che lo stato romano, già ai suoi tempi, fosse ormai perito e non ne rimanesse più traccia. Non mancano nella storia di Roma esempi di alte virtù, ma la molla che ha reso grande il suo dominio è stata la sua sete di potere, l’amore per la gloria terrena.
Dall’esempio della Roma pagana, avida di lode e di dominio, ma anche spinta dall’amore per la libertà, Agostino ne ricava un’analisi più ampia e teorica.
Fin dall’origine del genere umano esistono due specie di uomini dominati da diverse volontà e diversi fini, che danno origine a due società radicalmente differenti.
Nacque per primo il cittadino di questo mondo, poi il cittadino estraneo a questo mondo e membro della “città di Dio”. [...] Due amori hanno dunque fondato due città: l’amore di sé, portato fino al disprezzo di Dio, ha generato la città terrena; l’amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé, ha generato la città celeste.
La nozione di “città” ha qui un carattere mistico e ideale. Le due città di cui parla Agostino non si identificano, quindi, con istituzioni storicamente date. Non vi è identificazione tra “città terrena” e stato, da un lato, e tra “città celeste” e chiesa, dall’altro. Infatti,
[...] Caino edificò una città. Abele invece [...] non ha edificato, poiché la città dei santi è il cielo.
La realtà storica è simile ad una situazione intermedia tra i due estremi ideali e dà quindi luogo ad una commistione inestricabile delle due città.
Dalla constatazione che “la giustizia è la virtù che dà a ognuno il suo”, Agostino giunge alla pessimistica conclusione che la città degli uomini “è quasi sempre priva della vera giustizia”.
In essa le anime non prevalgono come dovrebbero sui corpi e la ragione non domina i vizi.
Tuttavia, la pace e l’armonia sociale possono esistere anche nelle società degli uomini e i cristiani sono interessati, come tutti, a difenderle.
Anche se nelle società umane si è sempre lontani dalla verità e dalla giustizia, il cristiano è comunque tenuto a obbedire alle leggi della città terrena in cui si trova concretamente a vivere e a compiere il proprio dovere civile. Se la società si impegna a formare buoni cristiani, in più avrà buoni cittadini.
La stessa partecipazione alla guerra è, per Agostino, un dovere civile perchè se la dottrina cristiana avesse voluto condannare ogni tipo di guerra, avrebbe esortato i soldati ad abbandonare completamente le armi. Naturalmente, la volontà deve perseguire la pace e solo la necessità può costringere alla guerra. Si può combattere, quindi, solo per conquistare la pace.
Agostino sostiene, in molti punti, anche la legittimità della violenza nella gestione politica dello stato. In molte situazioni la violenza risulta necessaria, come nel caso del medico o del padre, che intervengono, anche facendo violenza alla volontà del malato o del figlio, perchè vogliono il loro bene:
Se li trascurassero e non impedissero loro di danneggiarsi, questa falsa mansuetudine risulterebbe assai più crudele.
L’argomentazione è simile a quella usata dal Machiavelli nel Principe:
Debbe, pertanto, uno principe non si curare della infamia di crudele [...] perchè [...] sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o rapine [...]
Il pensiero politico di Agostino è stato oggetto nei secoli successivi di innegabili forzature. Il cosiddetto “agostinismo politico”, che consiste nel ricondurre alla giustizia divina ogni fondamento di legittimità dell’autorità temporale e nel subordinare il diritto dello stato a quello della chiesa, deriva dall’errata identificazione della città terrena e della città celeste con lo stato temporale e con la chiesa, confondendo il piano ideale con quello reale. Abbiamo visto, invece, che le due città agostiniane non si identificano in alcun modo con lo stato reale e con la chiesa di Roma.
L’agostinismo politico giunge alla sua piena realizzazione con l’impero di Carlo Magno. Viene superata definitivamente la concezione di uno stato autonomo su basi naturali, almeno fino a Machiavelli, a La Boétie e al giusnaturalismo.
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Abbiamo visto che la città terrena è quasi sempre ingiusta e malvagia. Da questa considerazione arriviamo al problema centrale del pensiero di Agostino, quello del male: metafisico e morale (o esistenziale).
“Si est Deus, unde malum?”. Se Dio è sommo bene, perché tollera l’esistenza del male?
Per quanto riguarda il problema del male, Agostino aderisce inizialmente alla soluzione manichea [dal filosofo babilonese Mani – 215 d.C.].
I manichei ponevano alla base della spiegazione del mondo una dualità fondamentale e irriducibile, quella del bene e del male. Essi elevavano il male a principio metafisico dell’universo, non meno reale del bene.
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Ben presto, Agostino si libera dalla concezione manichea e giunge a riconoscere nel male un puro “non essere”, una pura deficienza o privazione di realtà (e quindi di bene).
Per meglio capire la posizione agostiniana, accenniamo brevemente alla concezione neoplatonica di “Uno”, che ha avuto probabilmente una grande influenza sul nostro.
Secondo Plotino (Egitto – 204 d.C.), l’assoluta trascendenza dell’Uno (possiamo chiamarlo anche “Dio”) implica la sua inesprimibilità. Infatti, anche un’espressione d’identità (1=1) implicherebbe un riferimento al molteplice e al non essere (concetto filosofico risalente al Parmenide di Platone). Ma come può il mondo (molteplice) derivare dall’Uno senza che questo perda la sua unità e trascendenza?
La realtà divina trabocca, si espande, emanando delle “Ipostasi”. Dall’Uno emana l’Intelletto (o Verbo) e da questo l’Anima (mundi). La Natura è poi la mescolanza dell’Intelletto e dell’Anima con la materia. Quest’ultima, infimo grado della scala, non è un principio positivo, ma un limite privo di realtà e di bontà: il non essere.
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I manichei avevano fatto della coscienza umana qualcosa di passivo, un teatro della lotta tra il bene e il male, sui quali l’uomo non possedeva potere.
Agostino, inizialmente convinto che le opere buone o cattive non sono dell’uomo, ma dei due principi che sono in lui, riconosce successivamente e per esperienza personale che è egli stesso a volere o a non volere.
Ero io a volere, io a non volere; io, io ero. Non volevo pienamente né pienamente non volevo: da ciò nasceva la lotta con me stesso. (Confessioni)
Nel De libero arbitrio, per dimostrare che la volontà umana è essenzialmente libera, sostiene che
La nostra volontà non sarebbe volontà se non fosse in nostro potere. [...] perchè è in nostro potere è per noi libera.
L’uomo non deve trovare scuse nei propri peccati:
Dio mi ha dato il libero arbitrio; se ho peccato, io ho peccato... io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo.
Ma queste bellissime pagine di Agostino, come spesso accade, vengono travisate e sfruttate da Pelagio (monaco irlandese del V secolo) per sostenere che, essendo l’uomo libero, non ha bisogno per salvarsi della grazia divina. Si capisce come una simile tesi sia inconciliabile con la stessa natura del Cristianesimo: se fosse vero che l’uomo può salvarsi da solo, che necessità ci sarebbe stata che il Verbo divino si incarnasse e morisse sulla croce?
Ha così inizio la cosiddetta “polemica anti-pelagiana” di Agostino.
In Adamo e con Adamo, sostiene il filosofo, ha peccato tutta l’umanità, trasformandosi in “massa dannata”. Dopo il peccato originale nessun uomo avrebbe diritto a salvarsi; nessun uomo potrebbe con le sue sole forze riscattarsi dallo stato di dannazione. Solo la grazia di Dio concede ad alcuni predestinati di raggiungere la salvezza, il cui merito va dunque esclusivamente a Dio, non all’uomo.
Quella della predestinazione è, come si vede, una teoria molto rigida e non verrà mai completamente accettata dalla Chiesa. Tornerà, invece, al centro delle discussioni teologiche e filosofiche nel periodo della Riforma protestante.
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Come si concilia la teoria anti-pelagiana di Agostino con la sua difesa del libero arbitrio? Sono vere le accuse di essere ricaduto nella sua originaria posizione manichea?
Si ha torto, quando si sostiene che Agostino abbia sacrificato la libertà per difendere la grazia, perchè la sua preoccupazione è sempre quella di affermare sia la libertà dell’uomo, sia la necessità della grazia.
Per Agostino, è importante che si tengano ferme entrambe le verità, anche quando non si comprenda come possano stare insieme, perchè senza la libertà si sovverte tutta la vita umana e senza la grazia tutta la vita cristiana.
La grazia aiuta la volontà perchè non venga meno di fronte alle debolezze della sua natura, non la toglie.
Il libero arbitrio non viene tolto perchè viene aiutato, ma viene aiutato, appunto, perchè non viene tolto. (Epistole)
In questo quadro, è il peccato lo stato di servitù dell’anima, mentre la grazia è lo stato di vera libertà. Per Agostino, quindi, i due concetti di libertà e di grazia non sono contraddittori o lo sono dal punto di vista dell’intelletto umano, non di quello divino.
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Stesso discorso per i due concetti della libertà umana e della prescienza divina.
Noi abbracciamo l’una e l’altra verità [...] la prima per creder bene – un Dio che non prevede il futuro non sarebbe Dio – la seconda per vivere bene. (De civitate Dei)
Agostino spiega come la prescienza divina non tolga la libertà con l’esempio della memoria:
Come tu con la tua memoria non determini che si siano avverati gli avvenimenti passati, così Dio con la sua prescienza non determina che si debbano avverare gli eventi futuri. (De libero arbitrio)
Resta chiaro che anche i concetti di “avvenimenti passati” e “eventi futuri” fanno parte delle categorie dell’intelletto umano che non hanno a che fare con la mente di Dio.
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Abbiamo dunque visto che il peccato originale ha reso l’umanità una “massa dannata”. Ed è innegabile il pessimismo di Agostino, quando descrive a tinte forti la miseria umana. Ma perchè nell’uomo è così forte l’inclinazione al male e così difficile il compimento del bene?
Il problema è grave se si pensa che la divisione dell’uomo in se stesso è la causa della divisione dell’uomo dall’uomo, in virtù della quale si generano conseguenze drammatiche come i contrasti, gli odi, le guerre. Dalla divisione interione dell’uomo, infatti, derivano le divisioni esteriori, quelle sociali.
Per il vescovo di Ippona, quando l’uomo è aperto all’amore verso l’altro è l’essere più sociale della natura e costituisce con tutti gli altri una sola famiglia. Diventa, al contrario, l’essere più antisociale, quando si chiude in se stesso con l’amore privato.
[L’uomo] si oppone a tutti gli altri quando non riesce ad assoggettarli al suo egoismo. (De civitate Dei)
E’lo stesso pessimismo sulla natura umana che contraddistingue un altro grande pensatore, Machiavelli:
Perchè degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cùpidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, [...] quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. (Il principe)
Se per Agostino tutto questo è da ascrivere al peccato originale, per il genio fiorentino tutto è riconducibile alla “natura ferina” dell’uomo.
Il pessimismo sulla natura umana si riflette anche sulla vita politica in generale. Anche per Agostino, infatti, la politica è inganno e malvagità, frutto di ciò che più corrode gli uomini: la “libìdo dominandi” (il desiderio spasmodico, lussurioso, di dominare).
Agostino non ha risolto pienamente il problema del male, ma le sue indagini restano un capolavoro, indipendentemente dal fatto che se ne accettino o no le conclusioni. Il risultato è un nuovo concetto di persona, destinato ad una grande fortuna nel pensiero filosofico successivo.
Un’ultima considerazione e concludo. Agostino non ci dà soluzioni precostituite al problema del male. Tuttavia, la constatazione della naturale attitudine dell’uomo verso il male non deve condurci all’immobilità, alla mancanza di azione, ad uno sterile giudicare. Come il vescovo di Ippona ci esorta nei suoi Sermones (29, 5)
Si bona quaeris, prius esto ipse quod quaeris.
(Se cerchi cose buone, sii prima tu stesso come quello che cerchi).
Di Cristina Giuliano