CESARE BORGIA E LA FILOSOFIA POLITICA DI NICCOLÒ MACHIAVELLI - AVVOCATO ROTALE

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CESARE BORGIA E LA FILOSOFIA POLITICA DI NICCOLÒ MACHIAVELLI

"… perché dolersi se Machiavelli tende quasi a divenire il carceriere del suo interprete? Potrebbe, dopo tutto, quest'ultimo godere di una migliore compagnia?"
(Gennaro Sasso).

Nella conferenza di oggi, cercherò, per quanto mi è possibile nel breve tempo a mia disposizione, di delineare i tratti essenziali della filosofia politica di Niccolò Machiavelli soprattutto in relazione alla figura, affascinante e al tempo stesso ambigua, di Cesare Borgia.

Vedremo se e in che modo quest'ultimo fu ispirato nella sua azione politica dalle idee del Machiavelli o se al contrario fu costui a subirne il fascino, se è vero quello che in tempi remoti qualcuno fantasticò, e cioè che egli avesse imparato più dal Borgia che da Aristotele. Tale affermazione è falsa, anche se è probabilmente vero che Machiavelli ha formato la sua scienza non solo sui libri dei filosofi e degli storici antichi e moderni, ma anche in medias res, a contatto di uomini e situazioni concrete.

Faremo quindi filosofia, ma anche filosofia della storia, cercando di cedere il meno possibile alla tentazione di una lettura psicologica dei personaggi, in particolar modo per quel che riguarda Cesare Borgia.

Machiavelli è, come vedremo, un autore caratterizzato da una grande modernità e da una gigantesca "fortuna" che lo ha accompagnato da quando egli è morto. Ne è una prova il fatto che, tempo fa, interrogato sulle sue letture preferite, l'allora presidente statunitense Bill Clinton rispose senza esitare che era in grado di citare a memoria interi brani del Principe. Che a distanza di cinque secoli un filosofo della politica venga letto con interesse dal politico più potente del mondo è cosa che dà da pensare.

Tuttavia, tale "fortuna" si è configurata nei secoli come una gigantesca sfortuna postuma. Le opere di Machiavelli, infatti, sono state lette in modo molto bizzarro dalla metà del '500 al '700. Le deformazioni, le incomprensioni, le incrostazioni si sono succedute nei suoi confronti al punto che si potrebbe dire, riprendendo un'immagine platonica, che Machiavelli è la grande statua di Glauco dell'età moderna, sfigurata dalle tempeste e dagli eventi atmosferici.

Ricostruire l'autentica filosofia dell'autore fiorentino è alquanto difficile perché esiste un Machiavelli che parla attraverso i suoi scritti e poi esiste il Machiavelli dell'opinione media, di cui si parla nelle piazze, nei giornali, addirittura nei parlamenti degli stati moderni.

Machiavelli è l'autore del quale fino a pochi decenni fa si poteva credere sul serio che fosse l'allievo prediletto del diavolo. Persino in grandi lettori e pensatori dell'epoca moderna si annida questa riserva: che in fondo Machiavelli è uno scrittore veramente diabolico, è un maestro del male dal quale prendere le distanze per non impegnare il nostro pensiero e la nostra coscienza nelle questioni che hanno impegnato il suo pensiero.

CIT. (Dal Devoto Oli) "Machiavellico"= Ispirato a principi che esaltano l'astuzia e la mancanza di ogni scrupolo nei rapporti politici e sociali; "Machiavellismo"= Subdolo o spietato utilitarismo.

"Il fine giustifica i mezzi", dunque. Ma sfido chiunque dei presenti a citarmi il passo o l'opera di Machiavelli dove tale frase è contenuta o a dimostrarmi che tale frase può essere la logica e univoca interpretazione di un qualche suo concetto.

Naturalmente, qualcosa del Machiavelli deformato appartiene anche a quello reale. Così come esiste una certa ambiguità o un certo carattere enigmatico di alcune sue pagine. Un'ambiguità oggettiva, comunque, non nelle intenzioni dell'autore: la disonestà certamente non appartenne mai a Machiavelli come personaggio storico e come pensatore.

Ma vediamo dunque chi è Machiavelli, dando velocemente uno sguardo alla sua vita e iniziando un po' ad analizzare qualche tratto saliente della sua filosofia.

Tutti voi naturalmente saprete che Machiavelli è l'autore di molti scritti appartenenti a discipline diverse: egli appartiene alla storia della filosofia, alla storia della storiografia (ha scritto opere di storia), è uno dei più grandi scrittori in assoluto della letteratura italiana:

  • Nato da un'antica e nobile famiglia, il 3 maggio 1469 a Firenze, ivi morto il 22 giugno 1527. Sui suoi primi anni, i suoi studi, le sue inclinazioni, non si hanno che poche e incomplete notizie.

  • Nel 1493 viene assunto nella burocrazia fiorentina come segretario della seconda cancelleria della Repubblica.

  • Nel 1497, in una lettera a Ricciardo Bechi su due prediche del Savonarola appaiono già alcuni dei tratti della sua concezione della vita e della politica: è in germe in essa il suo giudizio sui "profeti disarmati", sugli uomini cioè che si avventurano nel gran mondo della politica, senza i mezzi per dominarlo e controllarlo. Savonarola viene perciò giudicato da un lato uomo ambizioso, dall'altro uomo che non sa dare corpo e concretezza di attuazione alla sua ambizione: il criterio del suo giudizio è mondano, politico, non morale. (La corruzione è più tollerabile del fanatismo)(DIV.)

  • Dal 1499 al 1512 compie per incarico dei Dieci di Balìa varie legazioni diplomatiche che lo portano dalle corti di "minori potenti"come Caterina Sforza Riario, Pandolfo Petrucci o Giampaolo Baglioni alle corti di Cesare Borgia, di Luigi XII di Francia o dell'imperatore Massimiliano I d'Asburgo: esperienze essenziali per un osservatore politico. Le relazioni diplomatiche del Machiavelli, i suoi dispacci, sono fonti importanti per la ricostruzione del suo pensiero politico, dove si formano i temi essenziali del suo pensiero: la necessità di non seguire mai le "vie di mezzo" o la teoria della fortuna.

  • Dalle sue esperienze italiane e fiorentine nascono in questo periodo gli scritti "Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, Parole da dirle sopra la provvisione del danaio" e "Sull'ordinare lo Stato di Firenze alle armi"; dalle sue esperienze internazionali nascono gli scritti "Ritratto delle cose della Magna" (sulla Germania) e "Ritratto  delle cose di Francia" (sulla Francia), nei quali la sua attenzione si rivolge al grado di maturità politica raggiunto da quei paesi.

  • La sconfitta delle milizie fiorentine a Prato nel 1512 consentiva agli spagnoli di impadronirsi della città di Firenze e di sostituire al governo democratico del Soderini, incapace di far fronte agli eventi, un nuovo governo dominato dai Medici. Il Machiavelli fu allontanato dal suo ufficio; sospettato di aver preso parte ad una congiura antimedìcea, fu imprigionato e torturato, quindi condannato al confino nel territorio stesso di Firenze. Nell'amaro ritiro di Sant'Andrea in Percussina, i ricordi di così tante e varie esperienze dovevano affollarsi alla sua mente, chiedendo ordinata e organica espressione.

  • Dalla lezione delle cose antiche e delle cose moderne fuse in una medesima considerazione critica, nascevano tra il 1513 e il 1517 i "Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio": un bisogno di veder chiaro nella struttura stessa dell'agire politico gli faceva assumere a materia delle sue riflessioni la storia di Roma repubblicana, quale era stata fissata nelle pagine di Tito Livio.

  • Nel 1513 interrompe il suo lavoro per scrivere di getto i ventisei capitoli del "Principe (De principatibus)", l'opera geniale che non ha qui bisogno di commenti. Testo straordinario, dall'impareggiabile rigore logico, obbedisce al gusto sottile della simmetria razionale. Due i procedimenti: il modello dell'antitesi o dell'antinomia (disgiunzione logica), il modello dell'analisi (quasi sempre per modus tollens); analisi ed esemplificazione. (DIV.)

  • Machiavelli è anche autore di componimenti in versi: dai due Decennali, ai Capitoli, all'Asino d'oro.

  • Un amaro sentimento di sfiducia domina i sette libri dell'Arte della guerra (1519-1520) composti per fare il punto su tutte le sue idee intorno alla milizia e ai grandi problemi della strategia militare.

  • Del 1520 è il breve saggio storico Vita di Castruccio Castracani.

  • Del medesimo periodo sono le commedie "La Clizia e La Mandragola", certamente il capolavoro del suo genio d'artista. Non si può intendere il Machiavelli filosofo se non si tiene presente la sua attività di letterato. Il contenuto de La Mandragola, infatti, è speculare al Principe. La sua drammaticità sta nel fatto che i suoi protagonisti parlano il linguaggio e agiscono secondo gli schemi delle opere del pensatore politico e così facendo avviliscono una logica creata per la fondazione e la conservazione degli Stati nei più bassi intrighi; si comportano cioè in modo "machiavellico", di qui la genialità dell'autore che quasi intuisce le incomprensioni future del proprio pensiero.(DIV.)

  • L'amarezza di tali personaggi rispecchia il drammatico presente della vita del filosofo: lui che aveva trattato con i re, ora era costretto, negli anni della sua maggiore saggezza, ad andare a Carpi, in legazione presso un Capitolo di frati minori.

  • L'ultimo scritto del Machiavelli sono le "Istorie fiorentine" (1520-1526), una grande e importante opera di storia. 

  • Il Machiavelli morì in "somma povertà" (come scrisse un suo figlio) nel 1527: con le Istorie fiorentine, l'arco del suo pensiero si era perfettamente concluso.

Abbiamo visto che fra le più importanti legazioni del Machiavelli ambasciatore c'è quella alla corte di Cesare Borgia. La sua figura compare in molti degli scritti che ho citato sopra. Prima di tutto le lettere che compongono le legazioni alla corte del duca e alla corte di Roma; i tre brevi scritti Parole da dirle sopra…, Del modo di trattare...e la celebre "Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini"; i versi del primo Decennale; il settimo capitolo del Principe, dove egli ne delineò il memorabile ritratto.

La figura di Cesare Borgia è caratterizzata da una fortuna postuma (o sfortuna dipende dai punti di vista) non inferiore a quella del Machiavelli (DIV.). Si fa fatica a distinguere il personaggio letterario da quello storico, la leggenda dalla realtà dei fatti. Per quanto ci riguarda, analizzeremo il suo personaggio secondo il metodo del filosofo scettico e libertino erudito Pierre Bayle: non citeremo, cioè, fatti che non siano più che provati dalle testimonianze e dall'analisi storica.

  • Cesare Borgia nasce nel 1475 dal cardinale di origine catalana Rodrigo Borgia (a sua volta nipote di Callisto III) e la sua amante Vannozza Cattanei.

  • Le notizie sulla sua adolescenza ne fanno un ragazzo sensibile, timido, introverso. Non è il primogenito, dunque, nonostante l'assoluta mancanza di vocazione, viene avviato alla carriera ecclesiastica. (DIV.)

  • La sua giovinezza è segnata dalla morte del fratellastro maggiore Pedro Luis. (DIV.)

  • A 17 anni diviene arcivescovo di Valencia, poi cardinale l'anno successivo.

  • Nel 1492 suo padre Rodrigo è eletto papa con il nome di Alessandro VI. A dispetto della cattiva fama, durante il suo pontificato rafforzò l'ordine pubblico, azzerò una parte del debito dello stato, decretò un anno di Giubileo, fu mecenate di vari artisti, potenziò l'università, con un editto sancì la spartizione del Nuovo Continente tra Spagna e Portogallo mostrandosi sensibile alla sua evangelizzazione, fu il grande difensore degli ebrei. (DIV.)

  • Nel 1498, suo fratello Juan, duca di Gandia, comandante dell'esercito pontificio, viene assassinato. Cesare abbandona le cariche ecclesiastiche e rimpiazza il fratello al comando dell'esercito.

  • Nel 1499, sposa Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra e cugina del re di Francia, Luigi XII, che lo nomina duca di Valentinois, donde il soprannome di "Valentino".

  • Nel 1499, forte dell'appoggio congiunto di suo padre e del re di Francia, comincia, come si disse, "a trarre fuora la spada", dando inizio al suo programma di conquista della Romagna.

Le terre romagnole appartenevano al dominio temporale dei papi. Ma già da molti anni, in seguito alle conquiste veneziane e alle vere e proprie tirannidi che i vicari pontifici avevano instaurato in molti centri, si reggevano come se fossero separate dal dominio ecclesiastico. Era quindi del tutto naturale che Alessandro VI desiderasse ristabilirvi, insieme all'ordine, la diretta autorità della Chiesa; e non meno naturale che si servisse di suo figlio Cesare, uomo deciso e ambizioso, del quale più si fidava (DIV.).

Che il Borgia mirasse a stabilire in quelle terre il proprio personale dominio era evidente, ma era anche autentico il pericolo che le terre romagnole passassero sotto il dominio di altre potenze (es. Venezia).
Così, in pochi anni, Cesare Borgia riesce a conquistare Imola, Forlì, Faenza, Cesena, Rimini, Pesaro, Pianosa, l'isola d'Elba, Piombino. Spesso il Valentino si serve dell'appoggio delle popolazioni locali dei territori conquistati, nei quali, da profondo conoscitore del diritto civile e canonico, crea nuove strutture giuridiche che gli sopravvivranno.

Le imprese del Borgia sembrano dunque irresistibili. Dopo la conquista di Rimini, ogni difficoltà poteva "parer facile". E intanto egli seguita a sviluppare il suo piano espansionistico, ora in direzione di Bologna, ora in direzione della Toscana, e quindi di Firenze, dove inizia a sentirsi la "grande paura". Nel giugno del 1502 la Signoria invia Francesco Soderini (vescovo di Volterra e fratello del gonfaloniere Piero) e Machiavelli come ambasciatori presso il duca, per definire la posizione della Repubblica nei suoi confronti. 

Mentre sono in cammino per raggiungere la corte del duca, i due legati apprendono la notizia che quest'ultimo si è improvvisamente impadronito, con una mossa mirabile, del ducato di Urbino, governato da Guidobaldo da Montefeltro. L'impresa suscita nel loro animo, come è comprensibile, una grande impressione. Ricevuti in palazzo nel colmo della notte, dopo un'estenuante attesa dietro la porta "serrata", i due ambasciatori si trovano di fronte un vincitore inizialmente benevolo, ben presto duro nelle sue richieste e nelle deprimenti recriminazioni. Che Cesare desiderasse l'amicizia di Firenze era ben noto, ma era anche vero che il modo in cui la città si era comportata nei suoi riguardi non poteva certo essere definito amichevole. Il duca ora chiede con le buone o con le cattive l'alleanza di Firenze, ma i due ambasciatori ribadiscono il rifiuto della repubblica di uscire dalla tattica temporeggiatrice con la quale esplicitamente si declina ogni proposta del Valentino.  

CIT. …troppo ben conosco che la città vostra non ha buono animo verso di me; anzi mi lascerà come uno assassino… Questo governo non mi piace et non mi posso fidare di lui; bisogna lo mutiate et mi facciate cauto della osservanzia di quello mi promettessi: altrimenti voi intenderete presto che io non voglio vivere ad questo modo: et se non mi vorrete amico, mi proverete inimico.

La risposta dei due ambasciatori denota durezza e grande senso di dignità: "risposesi, che la città aveva migliore governo che la potessi trovare, et satisfacendosene lei, se ne possevano satisfare etiam li amici suoi". CIT. 

Nonostante il drammatico colloquio e il mancato accordo definitivo, il giudizio conclusivo di Machiavelli sul duca non risente le vicissitudini delle quali pur dovrebbe rappresentare la "sintesi":
CIT.  Questo signore è molto splendido et magnifico, et nelle armi è tanto animoso, che non è sì gran cosa che non li paia piccola… mai si riposa né conosce fatica o periculo…fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati e' migliori uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso et formidabile, aggiunto con una perpetua fortuna.

Dal punto di vista dei contenuti che saranno poi elaborati dal Machiavelli nell'ambito della sua filosofia politica, possiamo distinguere, nel giudizio complessivo della legazione, tre importanti concetti. 
In primo luogo, Cesare Borgia aveva risvegliato nella mente del filosofo un'idea che gli era cara, quella della "via di mezzo", il metodo della politica fiorentina. A Machiavelli sarà senza dubbio piaciuto che il duca nulla concedesse alla via di mezzo ("o amici o nemici"): chi usava parlare un linguaggio altrettanto risoluto nelle corti italiane?

Per il fiorentino, la "patientia" è utile da coltivare, ma a tempo debito, trascorso il quale anche questa virtù diventa il peggiore dei difetti politici. La via di mezzo è dunque dannosa, così come la troppa pazienza negli Stati da luogo a "cose tristi"(CIT. …quello che si ha a deliberare, bisogna deliberare presto"). La diplomazia temporeggiatrice, il compromesso, è spesso indizio di patologica debolezza della volontà politica (CIT. …gli stati deboli sempre fiano ambigui nel risolversi: e sempre le deliberazioni lente sono nocive").

In secondo luogo, alcune osservazioni del duca sulle "armi proprie" e sul reclutamento dei soldati, richiamarono alla mente del filosofo i problemi sulla riforma della milizia cittadina. La consapevolezza borgiana della necessità di non dipendere più dalle armi e dalla fortuna di altri, rafforzano in Machiavelli la convinzione che uno stato per durare nel tempo non può affidarsi al favore altrui o alle milizie mercenarie, spesso traditrici, ma alla fedeltà dei propri cittadini ai quali dovrebbe essere affidata la difesa del proprio paese. Un concetto questo che avrà particolare fortuna nella costituzione di molti stati moderni (es. Svizzera).

In terzo luogo, la disperazione che traspare dalla violenza delle parole del duca denuncia la consapevolezza che egli ha della precarietà della sua celebrata "fortuna". Che significato ha per Machiavelli la "paura" del Valentino? La paura è il grado elementare e immediato di quella consapevolezza della rischiosità delle cose che è il più grande requisito del politico degno di questo nome. Sempre che si riesca a fare della paura uno strumento di realistica concretezza valutativa e a non subirne passivamente le conseguenze. Successivamente, quindi, Machiavelli introduce nella virtù del duca quella nota della consapevolezza dei rischi impliciti nella realtà, che nasce dalla paura, ma che diventa poi anche la connotazione fondamentale della virtù.

Machiavelli incontrerà ancora Cesare Borgia durante la sua seconda legazione presso la corte del duca a Imola, dall'ottobre 1502 al gennaio 1503. Un Borgia che si mostra più pieghevole e amorevole perché è in difficoltà a causa della ribellione dei suoi capitani riuniti a Magione (presso Perugia). Questi minacciano di far crollare in pochi giorni la costruzione politica faticosamente innalzata in tre anni. 

In questa seconda occasione, il filosofo avrà modo di dare alla virtù del duca un significato nuovo. Una virtù non più statica, ma vista nel suo dinamico contrasto con le cose, nel continuo confronto con la fortuna. Egli si trova di fronte un principe serio e consapevole, un uomo che minacciato da più parti valuta freddamente la complessità della situazione. L'immaginazione teorica del segretario ne è profondamente colpita; le qualità di Cesare richiamano con precisione i tre momenti attraverso i quali si articola l'azione di un politico responsabile: paura, consapevolezza ' virtù, intesa come volontà politica.

La seconda legazione di Machiavelli culmina in due importanti episodi: la condanna a morte di Ramiro de Lorqua e l'inganno di Senigallia.

Primo episodio. Ramiro de Lorqua, ministro di Cesare Borgia, venne mandato in Romagna per domare sedizioni, corruzioni e rimettere ordine in questa parte dello stato della Chiesa che Cesare amministrava.

Avendo dovuto usare eccessiva severità nei confronti dei sudditi, mise poi il duca nella necessità spietatamente politica di ucciderlo, facendolo trovare tagliato in due sulla piazza di Cesena, onde poi i popoli ne rimasero "satisfatti e stupidi": stupiti cioè che il principe avesse fatto qualcosa di così radicale, però a loro vantaggio. 

Vari commentatori si sono dichiarati "scandalizzati" dalla fredda descrizione che Machiavelli fa dell'episodio nel "Principe". Tralasciando la salvaguardia dei diritti umani (anacronistica per l'epoca), che fine aveva fatto lo stato di diritto? Eppure guardando più a fondo nel passo del "Principe", si vede che nella spietata azione di Cesare Borgia brilla, malgrado tutto, quella consapevolezza del bene popolare che è l'elemento primo in base al quale è possibile distinguere il "principato civile" dal "principato assoluto" (o tirannia o dittatura che dir si voglia). 

Il miglior principato è quello in cui il principe ha immediatamente il "favore" (il "consenso") del popolo che lo sorregge e al quale deve rispondere. La tirannide è per definizione il regime senza consenso, è il regime più debole, è il regime, per Machiavelli, sommamente da evitarsi. 

Per il segretario non è necessario che la tirannide sia associata alla crudeltà per essere tale, contrariamente agli uomini di questo secolo che hanno visto dittature terribili rispetto alle quali quello di Cesare Borgia era proprio un "governo per educande con qualche crudezza". E tuttavia una singola crudeltà è giustificabile se tutela a lungo termine il bene comune (es. utilitarismo).  

Secondo episodio. L'episodio di Senigallia rappresenta la "cosa invero rara e memorabile" della quale Machiavelli è testimone oculare e che verrà immortalata nella celeberrima Descrizione del modo tenuto… Abbiamo già parlato della congiura dei capitani borgiani a Magione presso Perugia. 

Il Valentino, tuttavia, cercò un compromesso con i congiurati che finirono per dividersi e sottoscrissero un accordo. A dicembre, alle porte di Senigallia, Cesare si incontrò con i capitani della congiura della Magione, li salutò cordialmente poi, subito dopo, li imprigionò, e, dopo averli portati davanti ad una corte marziale, li fece strangolare. Il fatto, che venne allora apprezzato dai signori degli stati italiani e dal re di Francia, è poi passato alla storia con la definizione machiavelliana di "bellissimo inganno". 

Le pagine della Descrizione..., così come quelle dei dispacci, sono splendide, ma terribili (si pensi ad es. all'analisi psicologica di Vitellozzo Vitelli nel momento della cattura tutta affidata a particolari visivi).
Il nostro interrogativo è ora come sia possibile che si possa provare ammirazione per un atto di vendetta così spietato. Si pone cioè, drammaticamente, la questione del male. Come si lega il male alla politica? Come si lega la politica alla situazione dell'uomo? 

Non vi è dubbio che Machiavelli sia uno scrittore talvolta terribile anche perché è uno dei pochi che abbia guardato a fondo, con realismo, senza ipocrisie, negli abissi della "ragion di stato". Ma come dobbiamo interpretare tutto questo? Possiamo dire che Machiavelli è un pessimista,  ritiene che gli uomini siano malvagi, ritiene che la politica sia il campo di elezione della malvagità dell'uomo?

Non c'è bisogno di scomodare la gran testa di Machiavelli per dire cose che chiunque penserebbe, anche conversando al tavolo di un bar.

Ritengo che la questione non si possa interpretare in questi termini. Il problema del male lo si deve interpretare nel quadro di un'intera filosofia, non avulso da tutto un contesto, se non si vuol rischiare di fraintenderlo. Machiavelli dice che i tempi sono vari (la realtà si modifica rapidamente) e il principe "deve avere un animo disposto a volgersi" secondo le necessità, e a sapere usare il bene potendo, ma anche "entrare nel male necessitato". 

Il punto di vista è dunque la varietà, l'accidentalità delle cose storiche, il rischio delle cose storiche, entro il quale si consuma la vicenda umana e che non offre all'uomo altre armi che la capacità di pareggiare, quando necessario, il bene e il male per l'istanza suprema di mantenere lo stato nei confronti delle forze disgreganti, interne o esterne. Il principe non deve essere un "immorale", ma deve possedere quella che oggi si definirebbe una "intelligenza ecologica", come l'animale che sa sopravvivere alle mutazioni dell'ambiente circostante (il "fine", comunque, non è mai il proprio tornaconto, ma l'esatto contrario e cioè la creazione della migliore comunità possibile) (DIV.).

Torniamo a Cesare Borgia. L'inganno di Senigallia rappresentò il momento di più grande potere del duca. Tanti erano stati i trionfi fino a quel momento: la nomina di Gonfaloniere e Capitano generale della Chiesa Romana, il conferimento della "Rosa d'oro", la nomina a Gentiluomo di Venezia. Ma  nell'agosto del 1503 muore Alessandro VI, lasciando Cesare in uno stato di prostrazione fisica e morale dovuta anche agli attacchi di malaria, la cui epidemia si era rapidamente diffusa a Roma. 

  • In Romagna, Venezia con l'appoggio dei nemici storici del duca inizia a occupare parti consistenti di territorio.

  • Nel settembre del 1503 Cesare, seppure debilitato, riesce a far eleggere pontefice il cardinale Francesco Piccolomini, con il nome di Pio III. Ma quest'ultimo, che lo aveva riconfermato capitano generale della Chiesa, muore dopo ventisette giorni di pontificato.

  • A novembre Cesare prende la malaccorta decisione di appoggiare l'elezione al soglio pontificio di Giuliano della Rovere, che diviene papa con il nome di Giulio II.

  • Giulio II non rispetta gli accordi stabiliti durante l'elezione pontificia e, una volta diventato papa grazie all'appoggio del Valentino, lo fa arrestare. 

  • Cesare riesce comunque a raggiungere Napoli, dove incontra il suo alleato Consalvo di Cordova, ma questi lo inganna e su ordine del papa lo arresta e ben poco possono fare in suo favore le fortezze romagnole che per lungo tempo gli sono rimaste fedeli.

  • Portato prigioniero in Spagna, dopo vari tentativi di fuga, viene trasferito a Medina del Campo, nella fortezza della Mota. 

Machiavelli aveva creduto di poter vivere, con il Valentino, una grande pagina di storia: ora, dopo aver meditato le ragioni del trionfo, dovrà rassegnarsi a meditare quelle ben più amare della decadenza.

L'ambasciatore fiorentino era stato a Roma, in occasione della sua prima legazione romana, proprio alla vigilia dell'elezione di papa Giulio II, poiché Firenze aveva grande interesse a seguire da vicino quel delicato momento politico. 

Nonostante la situazione sia confusa e inquieta, Machiavelli sembra prevedere l'inevitabilità della catastrofe borgiana e, al tempo stesso, egli avverte che la rovina del Valentino mette in crisi la sua costruzione intellettuale. Il pessimismo del filosofo viene drammaticamente confermato dall'ultimo colloquio con Cesare Borgia. Si era recato a far visita al Valentino per appurare di persona le sue condizioni e per vedere "che temere o sperare si poteva di lui". Ma bastano poche battute per fargli comprendere che, in realtà, di lui non si poteva né temere né sperare, per la ragione che non era più padrone di sé stesso.

CIT. … si distese con parole piene di veleno e di passione. A me non mancava materia di risponderli, né anche mi sarebbe mancato parole; pure presi partito di andarlo addolcendo, e più destramente che posse' mi spiccai da lui, che mi parve mill'anni… .

C'è qualcosa di doloroso e di sprezzante nelle parole con le quali il segretario suggella il suo commiato dal duca. E' il racconto di una delusione e di una sconfitta che, secondo la ferma previsione di Machiavelli, non potranno più essere riscattate. Le speranze che il  Valentino mostra poi di riporre sul nuovo papa non trovano credito presso l'ambasciatore. Questi, infatti, prevede la complessità del nuovo gioco politico: Giulio II avrebbe guardato ben oltre Cesare Borgia per il semplice fatto che quest'ultimo non era più uno dei maggiori potenti italiani, né c'era la possibilità che tornasse a esserlo. 

Crudo disinganno, dunque. Ma anche un giudizio sprezzante nei confronti del nuovo papa, da tutti benedetto, che "paga i suoi debiti assai onorevolmente… cancellandoli con la bambagia del calamaio". Oppure come recita il primo Decennale: 
CIT.  Iulio sol lo nutrì di speme assai; e quel duca in altrui trovar credette quella pietà che non conobbe mai.

Nell'ottobre del 1506, il Valentino riesce a evadere in modo spettacolare dalla fortezza della Mota. Nonostante sia molto ricercato, raggiunge Pamplona, dove regna suo cognato Giovanni di Navarra. 

Questi gli affida il comando di un esercito da lanciare contro un suo vassallo, Beaumont. Il 12 marzo 1507 a Viana, durante l'attacco alla fortezza del nemico, Cesare, rimasto isolato, viene ucciso in un agguato. Una morte solitaria forse più simile a un suicidio (DIV.).

Machiavelli apprende la notizia impegnatissimo nell'attività politica e diplomatica. Nei dieci anni trascorsi dall'ultimo incontro fino alla composizione del Principe, il segretario fiorentino non si occuperà più di Cesare Borgia (fatta eccezione per i versi del primo Decennale che abbiamo citato). Ma l'esperienza del duca sarà necessariamente al centro dei suoi pensieri.

Machiavelli dedica a Cesare Borgia il VII capitolo del Principe, quello sui "Principati nuovi che si conquistano con eserciti di altri e per contingenze favorevoli". Egli parte dalla convinzione che il problema politico consiste nel contrasto e nella lotta tra virtù e fortuna, tra il principio della chiarezza razionale e quella zona di ambigua irrazionalità che è la non eliminabile materia di ogni azione politica. [Va da se che il termine "fortuna" è qui usato nella sua accezione latina (sorte), privo cioè della connotazione positiva che ha in italiano].

Tuttavia, è diversa la situazione di chi semplicemente "riceve in dono" uno stato da quella di chi, come Cesare Borgia, diviene principe sfruttando la fortuna e le armi altrui (quelle del padre). Questi, se non vuole perdere subito lo stato, deve in qualche modo sostituirsi alla fortuna, forzandone i tempi ordinari e piantando lui stesso le radici del suo giovane stato. Questa operazione è tra le più difficili che un principe nuovo sia chiamato a compiere: richiede una "virtù estraordinaria". 

Il duca Valentino è stato un grand'uomo nella misura in cui è riuscito a forzare i tempi e le regole della natura, riuscendo a trasformare in "possibilità" ciò che sembrava imprigionato nella ferrea "necessità" delle cose. Ma l'esaltazione machiavelliana di Cesare Borgia è molto più problematica e contraddittoria di come si possa pensare.

Machiavelli sapeva bene che il duca era caduto per gli imperdonabili errori commessi nei giorni che precedettero l'elezione di Giuliano della Rovere al soglio pontificio. Perché allora rimuove questa consapevolezza, esaltando la virtù del duca, per farla riemergere in forme contraddittorie solo nell'ultimo paragrafo del capitolo? 

In realtà, il VII capitolo vive di due grandi temi: la grandezza storica del Valentino e la singolarità della sua caduta. A seconda che il filosofo accentui l'uno o l'altro tema, il capitolo ci appare in una prospettiva o in un'altra. Bisogna quindi saper cogliere questa contraddizione per capirne il significato.

Ma lasciamo parlare Machiavelli: 
CIT.  … Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdé; nonostante che per lui si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare … Se, adunque, si considerrà tutti e' progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se gli ordini suoi non li profittorono, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna. 

E ancora verso la fine del VII capitolo:
CIT.  Ma se nella morte di Alessandro lui fussi stato sano, ogni cosa gli era facile. E lui mi disse, ne' dì che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo el padre, e a tutto aveva trovato remedio, eccetto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.

Ma il tono cambia nelle ultimissime battute del capitolo:
CIT.  Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice … Errò, adunque, el duca in questa elezione; e fu cagione dell'ultima ruina sua.

La rapidità con la quale il destino storico del duca si consumò nei giorni dell'elezione di Giulio II ha due nomi: all'inizio viene definita "estraordinaria ed estrema malignità di fortuna", alla fine viene spiegata con l'errore che il duca commise "nella creazione di Iulio pontefice". Da una parte la "fortuna" (che significa assenza di colpa), dall'altra l'errore politico (che significa presenza di colpa). Queste due spiegazioni si contraddicono senza rimedio. Machiavelli non poteva tuttavia indugiare troppo nella contraddizione: nella "estraordinaria ed estrema malignità di fortuna" che aveva travolto il Valentino era possibile, guardando a fondo, individuare proprio quella colpa che, all'inizio del capitolo, era stata esclusa ("non fu sua colpa").

Qui, come si vede, l'intera prospettiva del capitolo si capovolge. Cade il motivo della fortuna estraordinaria ed estrema e rimane l'errore politico del Valentino che è poi la stessa fortuna estraordinaria ed estrema indagata sul profilo razionale e umano. Tale errore viene fatto coincidere poi, in negativo, con l'essenza stessa della politica. In tal senso, le virtù di Cesare Borgia scompaiono dinnanzi a un principio politicamente superiore: 
CIT.  [E' necessario] … mantenere le amicizie de' re e de' principi in modo che ti abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto… Perché gli uomini offendono o per paura o per odio. … E chi crede che ne' personaggi grandi e' benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s'inganna.

Se Machiavelli avesse seguitato a sostenere la tesi della "malignità di fortuna" avrebbe assolto il Valentino e condannato il "principe nuovo", del quale cercava di fondare il mito razionale. Se è possibile che la fortuna distrugga, in poco tempo, un uomo della virtù di Cesare Borgia, le soluzioni si riducono a due: o la rinuncia all'azione, o la rinuncia all'errore. E il principe nuovo non può rinunciare all'azione, deve rinunciare all'errore; deve cioè opporre alla fortuna estraordinaria ed estrema una virtù estraordinaria, mentre quella del duca Valentino non era che una consueta virtù umana. 

Machiavelli era stato indotto ad assolvere il duca, perché il mondo appariva ai suoi occhi come rischio, minaccia, "fortuna", e già degno di lode gli sembrava chi tanto a lungo era riuscito nella quasi impossibile impresa, essendo principe nuovo, di non lasciarsene travolgere. Si convinse alla fine a far violenza al suo sentimento di ammirazione e a condannare il suo eroe, allo scopo di poter salvare la razionale pensabilità del principe nuovo, il quale, pur muovendosi all'interno di eccezionali difficoltà, deve essere in grado di dominarle. La sua logica superiore esigeva il finale sacrificio del personaggio storico che più di ogni altro, nei tempi presenti, aveva saputo incarnare quell'ideale.

Il Principe, dunque, rappresenta la lotta per convertire l'ammirazione in razionalità, per procedere, oltre Cesare Borgia, verso il rigoroso modello del principe nuovo. 

Nei "Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio", Machiavelli farà un ulteriore passo avanti, fino ad elaborare la tesi della "Superiorità delle repubbliche", laddove la forza, la conservazione, l'unità dello stato sarà data dall'incontro e dallo scontro, dalla contraddizione, dalla dialettica (intesa proprio in senso hegeliano) tra i differenti "umori" (oggi diremmo forze sociali) che compongono la società. Uno stato dove tutti gli elementi che costituiscono il corpo sociale (quindi anche e soprattutto l'elemento popolare) trovano nella oggettiva realtà delle istituzioni la loro realizzazione (DIV.).

Un'ultima considerazione e concludo. Nei dispacci della legazione romana del 1503 e poi nei versi del primo Decennale, che in parte abbiamo citato, Machiavelli sembra ravvisare nella tragedia borgiana una sorta di "contrappasso". Contrappasso espresso non in termini moralistici o religiosi, ma in termini meramente politici. Eppure è possibile cogliere in questi giudizi delle sfumature moralistico-religiose. E' presente negli scritti machiavelliani il tema della nèmesi, una sorta di giustizia storica che pervade le vicende di cui il Valentino è stato il protagonista. 

Probabilmente, una illuminazione morale colse anche Cesare Borgia nell'ultimo segmento della sua vita [il pianto all'indomani del suo arresto a Napoli, le parole di una delle sue ultime lettere dove esprime la sua mancanza di compiacimento nell'aver dovuto necessariamente condannare i suoi nemici (DIV.)].  
E proprio questa nèmesi, questa "illuminazione morale", è forse l'omaggio più alto che Machiavelli potesse tributare al mito distrutto. 

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