L'inquisizione e il caso Galileo - AVVOCATO ROTALE

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L'inquisizione e il caso Galileo

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INTRODUZIONE

[...] io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo.[1]

Giovanni Paolo II, nel suo discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 10 novembre 1979, espresse l’auspicio che si riesaminasse in maniera corretta e obiettiva il processo a Galileo Galilei. Una commissione di studio fu costituita a tal fine il 3 luglio 1981. Lo studio del Prof. D’Addio[2] è una delle pubblicazioni che la Commissione ha presentato a conclusione dei suoi lavori.

Dalla seconda metà del Seicento in poi, Galileo è stato l’emblema del progresso scientifico, della libera ricerca della verità, che si oppone all’autorità e all’oscurantismo dogmatico della Chiesa Cattolica. Questa visione ha contribuito non poco a creare, in specie negli uomini di scienza, l’idea che ci sia incompatibilità tra lo spirito della ricerca scientifica e la fede cristiana.

L’approfondimento della questione e una ricerca storica per quanto possibile lontana da ideologie di stampo positivista da una parte e da intenti apologetici dall’altra, hanno dimostrato che questo mito è lontano dalla realtà dei fatti.

Sono due le questioni che intendo esaminare grazie alle Considerazioni del Prof. D’Addio. La prima, di natura epistemologica, riguarda l’ermeneutica biblica ed è forse la più dibattuta.

I metodi e i risultati della ricerca galileiani obbligarono i teologi dell’epoca a porsi il problema della compatibilità dell’eliocentrismo e della Sacra Scrittura, con il conseguente interrogarsi sui criteri di interpretazione della Scrittura stessa.

L’errore dei teologi del tempo (non di tutti, come vedremo) fu quello di pensare che la conoscenza del mondo fisico fosse imposta dal senso letterale della Scrittura. Infatti, la rappresentazione geocentrica del mondo era considerata pienamente concorde con l’insegnamento della Bibbia, nella quale alcuni passi, interpretati letteralmente, sembravano conferme del geocentrismo.

Galileo, sincero credente, si mostrò sulla questione più perspicace dei suoi avversari teologi, come ebbe modo di far notare anche Giovanni Paolo II.[3] La Scrittura, infatti, non si occupa dei dettagli del mondo fisico, la cui conoscenza è affidata alla ricerca scientifica. I due campi del sapere, quello che ha la sua fonte nella Rivelazione e quello che la ragione può scoprire da sola, sono ben distinti anche se non opposti. I diversi metodi mettono in evidenza aspetti diversi della realtà.

La seconda questione riguarda la ragionevolezza intrinseca dei risultati del metodo sperimentale di cui Galileo fu il geniale iniziatore. Siamo ormai abituati alla visione positivista che vede contrapposte da una parte la scienza (ragione e verità) e dall’altra la religione (errore e oscurantismo). Una tale ideologia (ancora fortemente imperante) forse ignora che la teoria copernicana venne condannata prima perché “falsa e assurda in filosofia”, cioè sul piano della ragione, e in un secondo momento perché contraria alla Scrittura; essa sembrava negare una ragione che si fondava sulla comune esperienza dei nostri sensi.

All’inizio, la verità galileiana non fu un “dato sperimentale”, ma una visione intellettuale, che anticipò i dati dell’esperienza e che si impose contro le acquisite e tradizionali esperienze. Questo dato trova riscontro non solo nei risultati della recente ricerca storica, ma anche nelle riflessioni della moderna filosofia della scienza.[4]

La considerazione lapalissiana che la verità raramente sta tutta da una parte è confermata, nel caso in questione, da molti fatti. Ad esempio, una delle tesi “dimostrate” da Galileo (essere le comete un fenomeno astronomico del tutto apparente) non è vera, mentre quella sostenuta dal suo avversario, il gesuita padre Grassi (essere la cometa un corpo celeste), è vera.

Inoltre, la contrapposizione netta tra Chiesa cattolica da una parte e mondo scientifico dall’altra è anch’essa un mito da sfatare. Come risulta evidente dai documenti citati da D’Addio, sul “caso Galileo”, la Curia era divisa tra i fautori dello scienziato pisano ed i suoi avversari, e tra questi molti nutrivano fondati dubbi sul sistema tolemaico. Per quanto riguarda il mondo scientifico, poi, alla fine del Cinquecento solamente pochi astronomi accoglievano il sistema eliocentrico, mentre la maggior parte lo rifiutava. Lo stesso Francesco Bacone considerava il sistema copernicano “falsissimo”, una invenzione concepita per far tornare i calcoli matematici dei moti dei pianeti.

Considereremo, di seguito, le varie questioni, focalizzando la nostra attenzione sui singoli processi intentati dal Santo Uffizio contro Galileo. Rifletteremo, inoltre, sia sulle reali motivazioni che portarono a valutare la teoria copernicana formalmente eretica, sia sulla condanna di Galileo all’abiura solenne: fu un “eccesso di potere”, un macroscopico errore o l’oggettiva difficoltà a riconoscere una nuova verità scientifica?

IL PROCESSO DEL 1616

Come già accennato, la cultura scientifica del sedicesimo secolo prestò scarsa attenzione alla tesi copernicana. La fama di Copernico si diffuse quasi esclusivamente per il contributo che la sua opera aveva dato al calcolo delle orbite e delle tavole astronomiche. Queste avrebbero costituito la base dei calcoli per la riforma del calendario. Molto più in voga erano le accurate ricerche astronomiche di Tyco Brahe, secondo il quale i problemi posti da Copernico potevano essere risolti con un sistema in cui i pianeti orbitavano intorno al sole, e questo, con tutti i pianeti, intorno alla terra, che rimaneva quindi al centro dell’universo.

Al di là delle varie tesi, era comunque opinione comune nella comunità scientifica del tempo che le teorie astronomiche erano delle ipotesi, delle finzioni, utili per il calcolo del movimento dei pianeti.

Lo stesso Galileo, in un primo momento, si interessò a Copernico solo perché la tesi eliocentrica si contrapponeva alla concezione aristotelica dell’universo che egli avversava. Solo dopo l’invenzione del telescopio, lo scienziato pisano acquisì quei dati sperimentali che (secondo la sua visione scientifica) gli consentivano di poter dimostrare il sistema eliocentrico. Nel Nuncius sidereus, infatti, egli prende definitivamente posizione a favore del sistema copernicano, la cui verità sostenne poi pubblicamente.

Nel 1611, Galileo fu a Roma, accolto con molti onori e ricevuto perfino da Papa Paolo V. Grandi lodi ottenne anche il Nuncius sidereus. Erano più che manifeste le sue idee copernicane, eppure non vi fu da parte ecclesiastica, nemmeno da parte degli astronomi gesuiti, alcuna riserva di carattere teologico alle scoperte galileiane. Alcune perplessità dell’ambiente ecclesiastico riguardavano il carattere scientifico delle nuove tesi: sembravano (a ragione) più convincenti le scrupolose osservazioni di Tyco Brahe, mentre le prove galileiane erano argomenti ancora solo probabili.

Un aspetto da non trascurare, a questo punto della questione, è l’amore di Galileo per il duello oratorio. Lo scienziato pisano era un vero maestro nell’arte di inventare argomentazioni stringenti per dimostrare le sue tesi e battere l’avversario, laddove le sue dimostrazioni scientifiche non erano sostenute da prove effettive.[5] Galileo sapeva ferire i suoi contraddittori, suscitando gelosie, risentimenti e rancori, che ebbero il loro peso nelle future vicende.

L’interesse e i dibattiti che le scoperte galileiane avevano suscitato, sia a Roma che a Firenze, portarono in poco tempo alla denuncia di padre Lorini prima, e a quella più circostanziata di padre Caccini poi. Nel primo caso, la Congregazione dell’Indice, senza entrare nella specifica questione copernicana, non ravvisò nelle tesi galileiane alcuna affermazione da censurare. La questione sembrava già concludersi in fase istruttoria. Con la seconda denuncia, invece, si incardinava il primo processo a Galileo, durante il quale si esaminò il problema dei rapporti tra il sistema copernicano e l’interpretazione tradizionale di alcuni passi della Scrittura.[6]

La linea difensiva di Galileo, in prima battuta, seguì l’orientamento enunciato da s. Agostino nel commento alla Genesi e accolto da s. Tommaso. Per s. Agostino, quando viene dimostrata una verità di natura non si contraddicono in alcun modo le verità di fede fondate sulla Parola: occorre quindi ben distinguere ciò che attiene alla fede e ciò che si riferisce alle conoscenze della natura. Le Scritture, secondo questa interpretazione, non devono essere considerate come un testo dal quale possano ricavarsi conoscenze scientifiche sui fenomeni naturali. Parimenti per s. Tommaso, la ricerca scientifica, fondata sulla ragione umana, ha una sua sfera di autonomia, che rimanda alla distinzione tra teologia e filosofia, tra ragione e fede. Per questo non possiamo risolvere le questioni che attengono alle verità naturali sulla base dei principi di fede: non si possono sostenere o rifiutare, come se appartenessero alla dottrina cristiana, affermazioni che non riguardano la religione.

Questa linea era sostanzialmente condivisa da un consistente numero di cardinali che avevano esaminato con interesse le scoperte galileiane. Un identico atteggiamento era seguito dal gruppo dei matematici ed astronomi del Collegio romano e dal rappresentante più autorevole dei gesuiti, il cardinale Bellarmino.

Autorevolissimo esperto di esegesi biblica, Bellarmino cercò una soluzione che consentisse di prendere in considerazione la tesi copernicana e quindi le argomentazioni di Galileo e nello stesso tempo di mantenere l’interpretazione consolidata sulla corrispondenza tra il sistema geocentrico e la Scrittura. Il gesuita ribadisce la distinzione tra teologia e scienza in base alla quale non avrebbe senso condannare o avallare una tesi scientifica sulla base della Scrittura. Quando sussistono opinioni scientifiche sicuramente acquisite e convalidate, il teologo deve studiare in quale modo deve essere rettamente interpretata la Scrittura, in quanto

Certe enim est verum sensum Scripturae cum nulla alia veritate sive philosophica sive astrologica pugnare.[7]

Ma il punto è proprio questo: le nuove scoperte astronomiche e l’interpretazione che ne dava Galileo potevano considerarsi “verità acquisite”? Le prove addotte da Galileo erano tali da escludere definitivamente il sistema tolemaico e quello di Tyco Brahe?

Gli studi di storia della scienza hanno mostrato che le tesi di Galileo certamente dimostravano infondato il primo, ma non il secondo: lo scienziato pisano non riuscì a fornire (anche per l’inadeguatezza degli strumenti scientifici a disposizione) una prova fisico-matematica del moto della terra, di cui dava una spiegazione geometrica in linea con il sistema di Tyco Brahe.

Galileo ritenne di poter provare in modo irrefutabile il moto della terra mediante le maree, che sarebbero determinate dal movimento di traslazione-rotazione della terra stessa: una spiegazione palesemente erronea. Con ragione, dunque, Bellarmino affermava:

[…] io non crederò che ci sia tal dimostrazione fin che non mi sia mostrata […] et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta dai Santi Padri.[8]

In sintesi, Bellarmino non esclude che possa esserci una vera dimostrazione della tesi eliocentrica, rileva giustamente che essa non era stata offerta da Galileo; il sistema copernicano, pertanto, doveva essere considerato un’ipotesi utile per spiegare il movimento apparentemente irregolare dei pianeti, ma dalla quale non poteva dedursi la sua corrispondenza con la realtà. Tuttavia, la ricerca della vera dimostrazione era pienamente legittima e non poteva essere vietata.

In quanto al concetto di “ipotesi”, Bellarmino si serve della nozione tomistica di congettura probabile, che può essere vera o falsa. Per Galileo, invece, l’ipotesi è premessa fondamentale delle sue teorie, che trova conferma nelle conclusioni logico-matematiche. Le ipotesi convalidate dalle dimostrazioni sono dunque vere, corrispondono cioè alla realtà naturale.

Inoltre, Bellarmino distingueva nettamente la fisica dalla matematica, sostenendo che quest’ultima non ci consente di conoscere i fenomeni naturali. Galileo, al contrario, voleva fondare una nuova scienza basata sul nesso tra matematica e fenomeni naturali, in grado di conseguire non una conoscenza ipotetica, ma una vera, certa, adeguata alla realtà naturale. Evidente, in questo quadro, che Galileo non potesse accettare la teoria dell’ipotesi del cardinale Bellarmino.

Entra in scena, a questo punto della questione, uno dei personaggi più controversi del “caso Galileo”: il cardinale Maffeo Barberini. Grande ammiratore dello scienziato pisano, aveva abbracciato la posizione di Bellarmino circa la teoria dell’ipotesi.

Secondo il Barberini, se le leggi della natura corrispondono a rapporti matematici, che rivestono per ciò stesso il carattere della necessità (non possono essere altrimenti), allora anche Dio è necessitato dalla natura stessa, che si presenta come un limite alla infinita potenza e libertà del Creatore. Ecco perché non si poteva dare una dimostrazione vera della tesi copernicana, che corrispondesse in tutto e per tutto alla realtà naturale, ma solamente una ipotetica, benché la prova della tesi eliocentrica avrebbe potuto essere ammessa sul piano delle verità “di fatto”. Il cardinale ravvisa, in tal senso, un pericolo “filosofico” nelle tesi galileiane: passare dall’affermazione dell’aspetto quantitativo come il conoscibile scientificamente all’affermarlo come il solo conoscibile e il solo reale.[9]

Galileo non comprese il valore dell’argomento svolto da Barberini: la scienza sperimentale non è conoscenza del tutto (il vero sistema dell’universo), ma delle singole parti, di fenomeni nei loro aspetti quantitativi. D’altro canto, il cardinale finiva per negare le verità sperimentali, ridotte a mere astrazioni, ipotesi, la cui corrispondenza con la realtà non poteva mai essere dimostrata.

Tuttavia, nel corso del primo processo, Barberini e Bellarmino intervennero affinché non ci fosse una esplicita dichiarazione di eresia nei confronti del sistema copernicano e che l’opera, il De revolutionibus, non fosse del tutto proibita, ma solamente “emendata” in quelle espressioni dalle quali poteva desumersi che l’ipotesi eliocentrica fosse stata sostenuta come “verità naturale”.

Con decreto del 5 marzo 1616, la Congregazione dell’Indice dichiarava contraria alla Scrittura la teoria della mobilità della terra e disponeva il divieto di lettura del De revolutionibus di Copernico finché non si fosse provveduto alle succitate correzioni.

Non si dette però corso alle denuncie contro Galileo; il processo venne praticamente chiuso nella fase istruttoria. Il cardinale Bellarmino convocò Galileo nel suo palazzo ed alla presenza di quattro ecclesiastici gli rese nota la decisione dell’Indice e lo ammonì a prestarvi obbedienza.

Fu soltanto una “ammonizione” o, come si sostenne in seguito, un vero e proprio “precetto”?[10] D’Addio sostiene che in realtà non vi fu nessun precetto, in quanto nel codice del processo conservato nell’Archivio Segreto Vaticano manca l’originale del documento e al suo posto vi è una annotazione del notaio non sottoscritta, di nessun valore giuridico. Inoltre, il precetto veniva notificato solamente se chi era ammonito non avesse prestato obbedienza, ma, come dichiarato dallo stesso Bellarmino, Galileo manifestò subito il suo assenso, senza fare alcuna obiezione. Riesce difficile credere poi che Papa Paolo V avesse concesso a Galileo un’udienza durata tre quarti d’ora, nella quale si esprimeva una certa stima per lo scienziato, ad una persona alla quale era stato intimato un precetto che presupponeva il rifiuto dell’assenso da parte dell’ammonito.


In ultimo, vi è la dichiarazione rilasciata, su richiesta di Galileo, dal Bellarmino in cui si attesta che

[…] lo scienziato non è stato costretto ad alcuna abiura né ha subìto alcuna pena per le sue opinioni ma […] gli è stata semplicemente comunicata la censura relativa alla tesi copernicana.[11]

IL PROCESSO DEL 1633

All’indomani del processo del 1616, non sussisteva una condanna assoluta della teoria copernicana. Questa non rientrava nelle opinioni eretiche, ma solo in quelle temerarie, che contrastavano, cioè, con un’interpretazione costante della Scrittura; doveva essere accolta quindi con le dovute cautele, come mera ipotesi atta a spiegare una serie di fenomeni astronomici: ciò non impediva che essa venisse ulteriormente svolta sul piano strettamente scientifico.

Nel periodo tra il primo e il secondo processo a Galileo, si verificarono tre eventi determinanti. Nel conclave del 6 agosto 1623 era eletto pontefice il cardinale Maffeo Barberini (Urbano VIII) che in quegli anni aveva perfino esaltato con un’ode latina le scoperte e il genio dello scienziato pisano. Il Santo Uffizio, poi, aveva dato seguito ad una nuova denuncia contro l’opera galileiana il Saggiatore perché in esso era contenuta la tesi copernicana: il consultore incaricato dell’esame dell’opera, però, aveva escluso ogni addebito. In ultimo, verso la fine del 1629, era stato nominato Maestro del Sacro Palazzo, nella cui competenza rientrava il permesso per la pubblicazione dei libri, il domenicano Nicolò Riccardi, che aveva letto e approvato il Saggiatore con grandi lodi.

Il momento doveva sembrare propizio, se Galileo nel maggio del 1630 si recò a Roma con l’intenzione di pubblicare il suo Dialogo dei massimi sistemi. Urbano VIII non oppose un rifiuto alla stampa, purché il manoscritto fosse rivisto in modo che fosse conforme alla censura ecclesiastica del 1616, per la quale la tesi copernicana poteva essere sostenuta solamente come “mera ipotesi”, e purché il titolo dell’opera non facesse riferimento al “flusso e riflusso” del mare.

Il Riccardi concesse l’imprimatur, dopo essersi assicurato che il manoscritto avesse recepito le condizioni di Urbano VIII.

L’avallo dell’autorità ecclesiastica, garantito dagli imprimatur del Riccardi e dell’Inquisitore di Firenze, sembrava porre il Dialogo al riparo degli attacchi degli avversari di Galileo, in special modo di quei membri del Collegio romano con i quali lo scienziato era entrato in aspra polemica. Invece, fu proprio il gesuita padre Scheiner, avversario di vecchia data, ad assumere l’iniziativa di sottoporre il Dialogo al giudizio del S. Uffizio, perché incompatibile con i principi enunciati nel decreto del 1616.

Iniziava così la fase istruttoria del nuovo processo, non senza polemiche e perplessità, soprattutto da parte degli ambasciatori fiorentini che non ritenevano ammissibile una procedura inquisitoriale nei confronti di un’opera già sottoposta all’esame della censura ecclesiastica.

Il S. Uffizio rispose alle inevitabili (e legittime) rimostranze con due rilievi: il primo si riferiva agli argomenti svolti nell’opera a sostegno della tesi eliocentrica, che mal si armonizzavano con le buone intenzioni dell’introduzione, di trattare cioè il sistema copernicano come “mera ipotesi”; il secondo, all’errato svolgimento della tesi svolta dal Papa in merito “all’impossibilità di dare una dimostrazione assolutamente valida dell’ipotesi copernicana”, tesi che, cosa gravissima, veniva attribuita ad un personaggio ridicolo quale Simplicio.

Urbano VIII era fermamente deciso a portare la questione galileiana all’esame dell’Inquisizione romana: aveva già nominato una Congregazione per un esame minuto del Dialogo e disponeva che l’Inquisitore di Firenze comunicasse a Galileo regolare precetto di comparizione presso il Tribunale. Tuttavia, nell’ambito della stessa Congregazione del S. Uffizio esisteva un orientamento contrario all’iniziativa del processo che sosteneva le ragioni di Galileo.

Il nuovo atteggiamento del Papa contrasta in modo radicale con tutto quanto egli aveva fatto dal 1611 fino al 1630, anno in cui aveva persino concesso allo scienziato pisano una pensione ecclesiastica: alla benevolenza subentra improvvisamente l’ostilità più decisa.

Cerchiamo ora di capire le ragioni di questo mutamento che avrebbe contribuito, nei secoli a venire, alla formulazione di un giudizio sostanzialmente negativo nei confronti del Pontefice.[12]

Una prima ragione fu di carattere personale. Constatare che l’argomento al quale dava tanta importanza era stato attribuito a Simplicio,[13] uno sciocco ingenuo, e ritenere che Galileo con Simplicio voleva riferirsi proprio a lui, fu per Urbano VIII un’offesa alla sua personalità di umanista, amante delle arti e delle scienze.

Per Galileo, questo fu un errore madornale ed egli forse non si rese conto dell’equivoco che avrebbe ingenerato facendo svolgere l’argomento di Urbano VIII a Simplicio, cosa che gli fece perdere la stima del Papa.

La seconda ragione fu di carattere politico. C’erano stati all’interno del collegio cardinalizio aspri contrasti a proposito della politica di Urbano VIII. Quest’ultima, volta a garantire l’indipendenza e l’autonomia della Chiesa e a contenere la potenza della Spagna e dell’Impero, veniva accusata di ledere gli interessi delle potenze che combattevano per la difesa del cattolicesimo, con una certa disposizione al dialogo con i protestanti che avrebbe favorito orientamenti culturali contrari all’autentica fede cattolica. Proprio l’approvazione del Dialogo avrebbe potuto essere interpretata come una manifestazione favorevole verso i novatori che intaccavano i principi della fede cattolica. Tanto più che autorevoli gesuiti sostenevano:

[il Dialogo] è esecrando e più pernitioso per la Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino.[14]

Sull’istruzione del processo contro Galileo, numerose furono le perplessità da parte di molti teologi circa l’opportunità di assumere una posizione di condanna, coinvolgendo l’autorità della Scrittura. I dubbi non riguardavano solo esponenti della Curia e della Congregazione del S. Uffizio, ma anche gli stessi astronomi del Collegio romano, tra i quali un vecchio “nemico” di Galileo, padre Orazio Grassi, che prese posizione a favore del pisano. Ma il Papa fu irremovibile: nonostante le precarie condizioni di salute dello scienziato e la difficoltà di un suo trasferimento, dispose che Galileo fosse arrestato e condotto a Roma.

Tuttavia, per riguardo alla sua età[15] e alla sua salute, lo scienziato non fu trattenuto come prigioniero presso il S. Uffizio, ma fu ospitato nell’abitazione del Commissario della Congregazione.

Il 22 aprile 1633 avvenne il primo interrogatorio. La linea difensiva seguita da Galilei fu quella di essersi attenuto all’ammonizione del primo processo, di aver seguito cioè la tesi copernicana come “mera ipotesi”. Egli esibì la copia della lettera del Bellarmino che confermava la sua deposizione. Inoltre, il fatto che il Dialogo fosse stato esaminato e licenziato per la stampa dal Riccardi e dall’Inquisitore di Firenze liberava lo scienziato dall’accusa di aver agito fraudolentemente, con dolo, per ingannare volutamente l’autorità ecclesiastica ed aggirare l’ostacolo del precetto (che, come abbiamo visto, quasi certamente non era stato intimato).

Fu questo il momento più drammatico del processo: bisognava acquisire una dichiarazione da parte dello scienziato che consentisse di superare lo scoglio rappresentato dal precetto sprovvisto dei requisiti formali essenziali, dandogli valore ex post sulla base di una confessione. Si trattava di sottoporre Galileo alla tortura: difficoltà insormontabile, sia perché, come sappiamo, era prassi dell’Inquisizione di non usare la tortura nei confronti delle persone anziane, sia perché apparve un provvedimento inumano nei confronti di un illustre scienziato.

Dopo un lungo colloquio, il Padre Commissario riuscì nel suo intento di far riconoscere a Galileo di non aver svolto la tesi copernicana come “mera ipotesi”, ma di averla presentata come una “assoluta verità”.

La confessione di Galileo fornì la prova per dimostrare che lo scienziato aveva agito con dolo, sapendo di violare il precetto che aveva tenuto nascosto allo scopo di ingannare l’autorità ecclesiastica.

Nel secondo interrogatorio, Galileo ribadiva la sua risposta negativa al fatto che gli fosse stato intimato il precetto nella forma del “tenere defendere vel quovis modo docere”, circostanza comprovata dalla famosa lettera del Bellarmino.

In un primo momento, Galileo era convinto che le sue ammissioni e la sua difesa avrebbero comportato la semplice correzione del Dialogo per tutte quelle espressioni “troppo favorevoli” alla tesi copernicana. A lungo andare, si rese poi conto della inutilità di continuare a lottare. Nell’ultimo interrogatorio, infatti, dichiarava:

[…] del resto son quà nelle loro mani, faccino quello che gli piace… Io son quà per far l’obbedienza.[16]

Il giorno seguente, Galileo comparve davanti alla Congregazione del S. Uffizio, riunitasi nel convento domenicano della Minerva, per ascoltare la sentenza e per pronunciare l’abiura solenne della tesi copernicana, quindi

[…] gli abbruciarono in faccia il suo libro, dove tratta del moto della terra […][17]

La pubblicazione del Dialogo era dunque una violazione del “precetto” della Congregazione dell’Indice, attuata con la precisa intenzione di aggirare il divieto:

[…] né ti suffraga la licenza da te artifiziosamente e callidamente estorta, non havendo notificato il precetto ch’havevi.[18]

Il comportamento di Galileo era stato dunque doloso, cosa che assolveva da qualsiasi responsabilità le autorità ecclesiastiche coinvolte nella concessione della licenza di stampa.

Inoltre, la sentenza sanciva in modo solenne che la tesi eliocentrica era

[…] dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, [e Galileo] reso a questo S. Off.o vehementemente sospetto d’heresia.[19]

Dunque, la dottrina copernicana non era più temeraria, ma formalmente eretica. Rimaneva però la perplessità se la tesi geocentrica fosse materia di fede e quindi irrevocabile. Fa pensare, comunque, il fatto che dei dieci cardinali che costituivano il Tribunale tre non pronunciarono e non sottoscrissero la sentenza. Secondo i dati forniti da D’Addio, l’astensione dei tre cardinali assume il significato di una manifestazione di dissenso nei confronti della condanna.

Già qualche tempo più tardi, apparve più chiaro che la sentenza fosse un “intrigo”: non solo sembrava aver sancito come principio di fede una questione di fatto, ma comportava una forte limitazione della ricerca scientifica, cosa molto difficile da accettare persino per il promotore del secondo processo (padre Scheiner). Evidente fu dunque la natura disciplinare della sentenza.

Bisognerà aspettare il 1820 perché la Congregazione del S. Uffizio riesaminasse l’intera vicenda della questione galileiana. In quella occasione, venne definitivamente precisato che nella sentenza del secondo processo a Galilei con il termine “eresia” non si intese la violazione di un principio di fede, che, in effetti, non era stato mai definito.

Inoltre, le recenti scoperte scientifiche avevano convalidato il sistema eliocentrico, mentre le più approfondite conoscenze sulla storia antica ebraica consentivano una migliore esegesi dei passi della Scrittura.

La sentenza del 1633 era così definitivamente annullata: la convinzione galileiana che non sussisteva opposizione tra la scienza della natura e la Parola era “cattolica”. Si riconosceva, inoltre, insussistente l’accusa di eresia: non si poteva chiedere a Galileo una professione di fede intorno ad un principio che non era stato definito da alcuna infallibile autorità. La condanna all’abiura solenne, quindi, era stato un vero e proprio “eccesso di potere”.[20]

Al termine dell’esame della vicenda galileiana, rimangono le parole di Giovanni Paolo II che, in linea con il Concilio Vaticano II,[21] ha riconosciuto e condannato le sofferenze subite da Galileo da parte di uomini e organismi della Chiesa.

Ci sia concesso di deplorare […] certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro.[22]

NOTE:

[1] Giovanni Paolo II, “Discorso per la commemorazione della nascita di Albert Einstein” (10 novembre 1979), in www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii

[2] M. D’Addio, Considerazioni sui processi a Galileo, Herder, Roma, 1985.

[3] Giovanni Paolo II, “Discorso ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze” (31 ottobre 1992), in www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii

[4] Su questo punto, si confrontino le riflessioni dei filosofi Thomas Khun e Paul K. Feyerabend e dello scienziato Pierre Duhem, tra l’altro citato dallo stesso D’Addio.

[5] Cfr. P. K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, New Left Books, London; tr. it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1979.

[6] Cfr., ad esempio, Gs 10, 12-13, dove Dio fece fermare il sole e prolungò la durata del giorno dietro preghiera di Giosuè.

[7] D’Addio, p. 35.

[8] D’Addio, p. 38-39.

[9] L’argomento di Barberini è simile a quello usato contro lo scientismo dallo scienziato P. Duhem. D’Addio, p. 43-4.

[10] Il precetto sarebbe stato un atto formale con cui si impegnava Galileo a non tenere, a non insegnare e a non trattare in qualsiasi modo la tesi copernicana, altrimenti sarebbe incorso nella condanna del S. Uffizio. D’Addio, p. 49.

[11] D’Addio, p. 52.

[12] Cfr. P. Rossi, Galileo Galilei, in P. Rossi (a cura di), Storia della scienza, vol. I: La rivoluzione scientifica: dal Rinascimento a Newton, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1988, p. 193-226.

[13] E’ l’argomento relativo all’impossibilità di pervenire ad una conoscenza oggettiva della verità naturale, da me accennato nelle pagine precedenti.

[14]  D’Addio, p. 88.

[15]  Galileo aveva settant’anni.

[16] D’Addio, p. 107.

[17] D’Addio, p. 108.

[18] D’Addio, p. 109.

[19] D’Addio, p. 109.

[20] Rimane ancora in piedi, tuttavia, l’ipotesi di E. Redondi, secondo il quale la motivazione autentica del processo del 1633 sarebbe stata un’accusa contro la teoria galileiana del calore, contraria alla dottrina eucaristica. La teoria di Galileo, infatti, riducendo le qualità reali della materia ad una mera percezione sensibile del soggetto, finiva per negare la dottrina eucaristica della transustanziazione. Galileo sarebbe stato, poi, accusato soltanto di aver sostenuto la tesi copernicana per evitargli conseguenze drammatiche, essendo quest’ultima accusa meno grave della prima. Secondo D’Addio, però, questa interpretazione del processo non troverebbe alcun indizio nei documenti galileiani che valga a sostenerla. D’Addio, p. 64-65.

[21] Cfr. GS 36.

[22] Giovanni Paolo II, “Discorso per la commemorazione della nascita di Albert Einstein” (10 novembre 1979), in www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii

Di Cristina Giuliano

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