Quote rosa e politiche della differenza
Ragioni filosofiche e contestazioni femministe alla base di un pensiero politico che privilegia la differenza a scapito dell’imparzialità.
E’ recente la notizia di una proposta di legge del Governo di Oslo che riserva alle donne almeno il 40 per cento delle poltrone nei consigli di amministrazione delle grandi imprese.
La Norvegia si conferma così una delle nazioni più all’avanguardia nel garantire le pari opportunità tra i sessi. Eppure in Italia iniziative di questo genere sollevano più di una perplessità e il cosiddetto “sistema delle quote” è considerato quasi un tabù. Si ricorderà l’alzata di scudi, seguita alla proposta di riservare una quota di seggi del Parlamento italiano a onorevoli donne: perfino parlamentari del gentil sesso si rifiutarono di essere considerate al pari di una “specie protetta”.
La difficoltà di distribuire i diritti
L’idea di una politica della differenza, una politica cioè che tenga conto delle differenze di genere o di altra natura di determinati gruppi sociali, non è molto intuitiva, quanto di difficile attuazione. Per poterne comprendere la ragionevolezza, proviamo a riflettere sui presupposti filosofici e sugli argomenti più o meno convincenti di contestatrici storiche quali Iris Young, una delle più importanti studiose di filosofia politica degli Stati Uniti.
Il pensiero politico dominante riduce la giustizia sociale a un problema di equa distribuzione delle ricchezze. Tale paradigma “distributivo” è però inadeguato a risolvere i problemi riguardanti i rapporti di potere, le opportunità, il ruolo della cultura, il rispetto e la dignità delle persone. E’ ovvio che qualunque concezione di giustizia dovrebbe dare per scontato che soddisfare i bisogni materiali sia un valore. Ma che cosa significa la frase “distribuire un diritto”, quando quest’ultimo non si riferisce a beni materiali? Le opportunità, la considerazione pubblica, il riconoscimento sociale, il rispetto, come si distribuiscono?
A questa nuova idea di giustizia sociale, che tiene conto anche dei beni che riguardano il fare e non l’avere, corrisponde, sul versante opposto, una condizione sociale che definisce l’ingiustizia: l’oppressione.
L’oppressione consiste in una serie di processi istituzionali sistematici che impediscono ad alcune persone di usare le proprie capacità in situazioni socialmente riconosciute. Lo sfruttamento, la marginalizzazione, la mancanza di potere, l’imperialismo culturale e la violenza sono le varie facce del fenomeno “oppressione”. Vediamo come queste situazioni si concretizzano nella realtà di tutti i giorni.
Lavoro domestico e ideologia della professionalità
Nel lavoro domestico, ad esempio, dove le energie della donna vanno a vantaggio degli uomini senza una remunerazione corrispondente, lo sfruttamento consiste nel fatto che le donne lavorano per una persona dalla quale contemporaneamente dipendono. I lavori (quelli retribuiti) considerati ancora oggi tipicamente femminili comportano mansioni che prevedono sostegno psicologico, accudimento fisico, appianamento delle tensioni, collaborazione subordinata o prestazioni sessuali. Le energie delle donne vengono dunque spese in lavori che promuovono il prestigio o la comodità di altri, che di solito sono uomini, e che vengono, in tal modo, lasciati liberi per altre più importanti e creative attività.
Di contro al tipo di lavoro dipendente svolto solitamente dalle donne, vi è un assunto, profondamente radicato, secondo il quale, per essere soggetto morale e avere piena cittadinanza e rispetto, occorre essere persone autonome e non dipendenti.
La mancanza di potere (quello con la “P” maiuscola, per intenderci) è poi strettamente correlata all’imperialismo culturale che universalizza la cultura dominante e quindi vincente (quella maschile) che viene accreditata come “normale”.
Un altro esempio riguarda la constatazione che la maggioranza delle donne vive nella consapevolezza di dover temere aggressioni sistematiche e ingiustificate contro la propria persona. In questo quadro, la violenza non è considerata come un’infrazione individuale alla morale, ma come un fenomeno di ingiustizia sociale, in quanto avviene in un contesto che la rende possibile e accettabile. Tale minaccia priva la donna della libertà e consuma inutilmente le sue energie. E’ bassa, ad esempio, la percentuale di donne che accetta un lavoro notturno, peggio se da svolgere in solitudine.
La questione delle quote rosa
Il principale argomento in favore di politiche che mirino dichiaratamente ad aumentare la partecipazione delle donne nei processi decisionali e nelle occupazioni ad alta retribuzione e autorità è che tali politiche intervengono nei processi dell’oppressione allo scopo di eliminarla; erroneo è quindi considerarle come dovute compensazioni per una passata discriminazione.
Il problema è se gli interessi delle donne siano tutelati meglio da politiche neutre rispetto al genere o focalizzate sulla donna. E’ ovvio, infatti, che vi siano dei rischi sia nel dare importanza alle differenze, sia nell’ignorarle.
Ma è lecito presupporre una continuità tra la passata condizione femminile e l’attuale situazione sociale? In fondo, le nostre regole giuridiche e sociali esprimono chiaramente un impegno verso l’uguaglianza: che si pretende di più?
E’ vero che, a livello discorsivo, ben pochi avrebbero il coraggio di giustificare atteggiamenti sessisti, e tuttavia permangono processi inconsci di avversione e svalutazione nei riguardi delle donne.
La pervicacia del sessismo mediatico
Un ambito emblematico dove meglio agiscono queste avversioni è quello dei mass media: come è possibile, per esempio, che nelle sue regole formali una società si dichiari non sessista, quando poi la stessa società produce e distribuisce a livello di massa riviste, calendari, programmi televisivi che presentano una donna intellettualmente degradata in immagini volte a eccitare sessualmente?
E’ vero che, molto spesso, le immagini dei mass media sono innocue fantasie che non hanno relazione con la realtà e che gli spettatori, uomini o donne che siano, non prendono sul serio, ma è altrettanto vero che questi prodotti, dando sfogo alle sfrenate fantasie, esprimono sentimenti, avversioni e desideri che non possono manifestarsi altrove.
Rimane comunque forte il dubbio se tali politiche della differenza, violando il principio della parità di trattamento, non siano esse stesse discriminatorie e ingiuste: le occupazioni, specie quelle di responsabilità, non dovrebbero essere distribuite in base al merito?
Per poter applicare il principio meritocratico, occorrerebbe disporre di criteri di valutazione neutri, obiettivi, giusti. Ma secondo le sostenitrici di tali politiche è difficile che i criteri di valutazione della nostra società risultino completamente imparziali, quando non vi sia l’influenza esplicita di pregiudizi ancora vigenti negli organismi decisionali. Se una valutazione del merito neutra è impossibile, l’immagine di una società dove solo chi ha merito e capacità (a prescindere dal sesso) accede ai posti di potere ne viene fortemente intaccata.
La questione, come si è visto, è di difficile soluzione e pone problematiche che non si esauriscono in un articolo di giornale. Ma ritengo sia utile ascoltare e comprendere le motivazioni di questi “nuovi” punti di vista (anche se per qualcuno un po’ fuori moda); se non altro, per non scandalizzarci più di tanto quando qualcuna (sempre più raramente) pronuncia parole come “differenza” o “quote”.
Di Cristina Giuliano