LO SCETTICO E LA SUA FEDE
Il tema che affronteremo, anche se in maniera non approfondita come l'argomento meriterebbe, è lo scetticismo.
Ritengo, e con me autorevoli studiosi, che molta parte della filosofia antica e buona parte di quella moderna possono considerarsi il prodotto di uno scambio dialettico tra le tesi o le rivisitazioni dello scetticismo greco e gli innumerevoli tentativi di metterlo in discussione o di superarlo, anche se è forse eccessivo considerare lo scetticismo come "la Filosofia".
Prima di entrare nel vivo dell'argomento, sono necessarie due premesse.
In primo luogo, trattandosi di una lezione di filosofia e dovendo usare un gergo "filosofico", occorre far piazza pulita di una serie di luoghi comuni legati al linguaggio comune. Primo fra questi è l'idea secondo cui "scettico" è, sempre e comunque, sinonimo di "ateo" e "miscredente". Idea che apparirà falsa nel corso della nostra conferenza, quando andremo a considerare la storia della profonda crisi pirroniana che a partire dalla Riforma protestante e dalla riscoperta, in quegli stessi anni, delle opere di un grande scettico dell'antichità, ha attraversato la cultura filosofica, scientifica e religiosa della modernità, gettando la sua ombra fino ai giorni nostri.
La seconda premessa ci porta a riflettere su un episodio riguardante Girolamo Savonarola,
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il frate domenicano famoso per il falò delle vanità e per la sua predicazione contro la corruzione, fatto poi impiccare e ardere dai suoi avversari politici in Piazza della Signoria, a Firenze, nel 1498. Il Savonarola, nell'ultimo anno della sua vita, aveva ordinato a due monaci del convento di San Marco di preparare una traduzione latina di un testo della filosofia greca presente nella collezione della biblioteca. Questo progetto non giunse mai in porto e, a quanto sembra, con la morte del suo autore, quando i suoi seguaci dovettero lasciare il convento, fu lasciato cadere. Ora, ci si chiede: com'è possibile che un uomo come Savonarola, un frate che odiava la filosofia, che voleva darne alle fiamme i libri insieme alle opere letterarie, vestiti, quadri, opere d'arte da lui considerate "vanità", potesse addirittura chiedere ai suoi monaci di tradurre un testo di filosofia pagana? Di quale libro si trattava e in che modo il frate domenicano poteva avvalersene?
Il libro in questione era "Schizzi pirroniani" del medico e filosofo greco Sesto Empirico (ca. 180-230), la fonte più importante per la nostra conoscenza dello scetticismo antico.
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Le prime menzioni del libro di Sesto Empirico risalgono al decennio 1440-1450, quando i manoscritti greci del testo furono portati in Occidente da Costantinopoli. Nella già citata biblioteca di San Marco a Firenze esistevano ben cinque manoscritti greci di Sesto Empirico e le prime discussioni serie delle idee dell'autore sono quelle contenute in un'opera di Gian Francesco Pico della Mirandola, nipote del grande umanista fiorentino e discepolo del Savonarola.
Grande impatto dello scetticismo antico sul mondo intellettuale si ebbe dopo la pubblicazione, avvenuta in Francia anziché in Italia, delle versioni latine di Sesto nel 1562 e nel 1569.
Uno dei primi autori che, dopo essersi imbevuti delle idee dello scetticismo greco, ne hanno fatto una componente dominante del mondo intellettuale del tempo, fu Michel de Montaigne, il protagonista della nostra discussione.
Montaigne, filosofo e scrittore francese, alternò la viva partecipazione alla vita politica del tempo (fu il sindaco "cattolico" di Bordeaux) a periodi di meditazione nel castello di famiglia; qui nel 1572, nella Francia sconvolta dalle guerre di religione (cattolici contro calvinisti o ugonotti), redasse la sua opera più celebre, i "Saggi", un capolavoro della letteratura di riflessione che ebbe grande influenza sulla cultura filosofica del tempo. In generale, egli non si è limitato ad affrontare e a modernizzare gli argomenti scettici, ma ne ha sviluppato le applicazioni alla filosofia, alla scienza e alla teologia.
Dell'opera di Montaigne, considereremo il capitolo XII del II libro, "l'apologia di Raimond Sebond".
Raimond Sebond era un teologo catalano la cui opera "Teologia naturale" fu tradotta dal latino al francese da Montaigne: egli scrive un'apologia per difenderla dalle innumerevoli critiche.
Lo scopo dell'opera di Sebond è quello di difendere e dimostrare la verità filosofica del cristianesimo; egli intende, cioè, con ragioni umane e naturali, provare contro gli atei tutti gli articoli della religione cristiana.
Montaigne ammette che non vi è occupazione più degna per un uomo cristiano che usare i suoi studi e la sua intelligenza per estendere e ampliare la verità della sua credenza, e tuttavia ci invita a riflettere su due obiezioni all'opera di Sebond.
La prima obiezione è che i cristiani si danneggiano volendo sostenere con ragioni umane la loro credenza, che si concepisce soltanto per fede e per ispirazione della grazia divina. Anche Montaigne pensa che i mezzi umani non siano in alcun modo capaci di concepire le verità di Dio, troppo alte e troppo distanti dall'intelletto umano.
La seconda obiezione riguarda gli argomenti usati da Sebond, i quali sarebbero deboli e incapaci di mostrare ciò che egli vuole, per cui si pensa di poterli facilmente ribattere. In effetti, secondo Montaigne, si dà buon gioco agli atei o agli eretici, lasciandoli liberi di combattere la nostra religione con armi puramente umane; senza contare che più gli argomenti sono inefficaci, più diventano armi potenti nelle mani degli empi.
Ci si chiede: ma l'uomo ha in suo potere altre ragioni più forti di quelle di Sebond, cioè può arrivare a qualche certezza con argomentazioni e ragionamenti? Montaigne è convinto di no. Lo scopo della sua riflessione è quello di abbattere questa presunzione dell'uomo. Il mezzo che sceglie è quello di calpestare e schiacciare l'orgoglio umano (o orgoglio della ragione), le "cuider", mostrando la vanità delle armi della ragione.
In primo luogo, Montaigne opera uno smascheramento delle illusioni di cui l'uomo si alimenta; egli critica la società umana e quella del suo tempo, ma tale critica non sfocerà in una teoria utopista, quanto in un realismo pessimistico. Egli mantiene un atteggiamento di disincantamento dal mondo, accogliendo appieno l'insegnamento di Niccolò Macchiavelli
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e la sua netta separazione tra essere e dover essere.
In secondo luogo, egli riprende lo scetticismo greco, proprio quello di Sesto Empirico: opera un processo di assimilazione delle idee scettiche al cristianesimo. La critica al "cuider" è comune, mentre le obiezioni al Kritérion (indicatorium in latino) (il criterio logico con cui i dogmatici ritenevano di poter distinguere il vero dal falso) da parte di Sesto Empirico diventano la critica alla ragione del cristiano, critica che è un preambolo della fede: non dimostrazione razionale dunque, ma dimostrazione dell'impotenza della ragione.
Con Montaigne inizia l'elaborazione del concetto di credenza che si distingue dal concetto di fede, mentre per la teologia non c'era distinzione. La credenza è un atto puramente umano con il quale gli uomini credono (o credono di credere), la fede è un dono soprannaturale, divino. Si può accompagnare la fede con tutta la ragione che è in noi, ma sempre con questa riserva, di non ritenere che essa dipenda da noi, né che i nostri sforzi possano arrivare ad una scienza così divina.
CIT. …la vista dei nostri crocifissi … gli ornamenti e i riti cerimoniosi delle nostre chiese… quell'emozione dei sensi …[riscaldano] l'anima di un sentimento religioso di grandissima utilità.
[... ... Pascal]
Il meccanismo della credenza è umano e si analizza con strumenti umani: si crede a seconda delle credenze del luogo di nascita (CIT. noi siamo cristiani per la stessa ragione per cui siamo … tedeschi), per conformismo, per motivazioni politiche, a volte in malafede; la fede diventa una copertura per comportamenti di altra natura (ES. le guerre di religione). Prova ne è che esteriormente le fedi finiscono per diventare uguali [CIT. … spesso, la religione (più di una religione) produsse azioni empie e scellerate (Lucrezio)].
CIT. Gli uni danno ad intendere al mondo di credere quello che non credono. Gli altri, in maggior numero, lo danno ad intendere a se stessi, non sapendo concepire che cosa sia credere.
Per quanto riguarda coloro che fanno professione di ateismo, si può concordare con Platone che questa è una posizione quasi contro natura, difficile a fissarsi nell'animo umano; molto spesso gli uomini si professano atei per vanità, per l'orgoglio di esprimere opinioni non comuni, per darsi un tono: uomini non abbastanza forti, comunque, per avere radicata questa convinzione nella loro coscienza. Ci sono pochi uomini così saldi nell'ateismo che un pericolo incombente non li riconduca al riconoscimento della potenza divina.
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Ma, per Montaigne, neanche questo atteggiamento riguarda un vero cristiano (CIT. Bella fede, che crede quello che crede solo perché non ha il coraggio di non crederlo!).
In realtà, le rivolte contro Dio non nascono in seno all'ateismo, ma sono connaturate alla figura del "blasfemo"; in altri termini, di chi, pur credendo in Dio, lo incolpa e lo attacca o, in un delirio di onnipotenza, vuole prendere il suo posto.
Possiamo concordare quindi con il filosofo francese Albert Camus ("L'uomo in rivolta"), il quale considera l'uomo moderno non già figlio dell'ateismo, ma discendente naturale di Caino. Quest'ultimo crede in Dio, ma in cuor suo crede di essere vittima di un'ingiustizia e si sente quindi legittimato ad una rivolta che sfocia nell'omicidio (il delirio di onnipotenza, appunto).
Un ulteriore passo di Montaigne è quello di smascherare un pregiudizio comune per l'umanità: l'antropocentrismo. Pur conservando la sua dignità, l'uomo non occupa più un posto centrale nell'universo. Montaigne riduce il suo privilegio rinascimentale, mondanizzando l'uomo attraverso il paragone con gli altri animali di cui non è superiore.
Questa parte dei "Saggi" è molto ricca di citazioni e dimostrazioni tratte sia da Sesto Empirico, sia dal filosofo latino epicureo Lucrezio. Tutti argomenti volti a dimostrare che c'è nel mondo un'uguaglianza più alta di quella costruita dall'uomo.
L'uomo non è migliore degli animali nelle sensazioni: è indubbio che a volte certi sensi siano più sviluppati nelle bestie. L'uomo non è superiore nel ragionamento: ci sono animali, come il cane o le api, che dimostrano di essere capaci di raziocinio; ma, se per noi stessi pensiamo che il ragionamento sia dovuto ad una capacità superiore, agli animali attribuiamo una qualche inclinazione naturale e bassa come l'istinto.
CIT. Del resto, quale delle nostre facoltà non troviamo nelle opere degli animali?
[Grande quantità di esempi, Plinio, Lucrezio, Cicerone, ecc. (si rimanda l'uditorio alle pagine di Montaigne)].
E se vogliamo trarre qualche superiorità dal fatto che è in nostro potere servircene e adoperarli a nostra volontà, non si tratta che di quella stessa superiorità che noi abbiamo gli uni sugli altri. (ES. Gli schiavi o i lavoratori che da noi dipendono). Tuttavia, gli uomini che ci servono, lo fanno con meno profitto e con un trattamento meno premuroso e benevolo di quello che spesso usiamo ai cani, o gatti, o cavalli. Cosa ne sappiamo che non siano loro ad usare noi?
Quanto alla guerra, che pare l'unica cosa in cui l'uomo è eccellente, viene da chiedersi se sia una prova della nostra superiorità o, al contrario, la testimonianza della nostra debolezza e imperfezione; poiché la scienza che abbiamo di distruggerci non ha molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la possiedono e tuttavia queste ultime non ne sono del tutto esenti.
Per avallare la propria superiorità, non serve all'uomo neanche appellarsi a coloro che sono considerati personalità eccellenti.
Per esempio, tenendo conto dell'importanza delle azioni dei principi e il loro peso, ci persuadiamo che siano prodotte da qualche causa altrettanto grave e importante. Ci inganniamo: essi sono trascinati nelle loro azioni dagli stessi impulsi che governano le nostre. La stessa ragione che ci fa litigare con un vicino, suscita tra i principi una guerra. Essi vogliono con la stessa leggerezza con la quale vogliamo noi, ma possono di più.
Considerando poi gli uomini di grande ingegno, ci si chiede: c'è poi un gran vantaggio ad essere tanto saggi, tanto intelligenti, tanto istruiti?
A questo proposito, basta citare la bella frase dell'Ecclesiaste: "Dove c'è molta sapienza c'è molta tristezza, se si aumenta la scienza si aumenta il dolore". (CIT.) Anche qui gli esempi di Montaigne sono innumerevoli, tutti atti a mostrare che l'uomo si illude credendo che la cultura o il sapere, la filosofia, possa aiutarlo a capire o a superare il dolore di vivere. A volte, anzi, pare che la distanza tra la follia o la malinconia, e le ardite elevazioni di uno spirito libero sia impercettibile. E' chiara qui l'allusione alla pazzia di Torquato Tasso, cui Montaigne si era recato a far visita all'Ospedale di Sant'Anna, a Ferrara, nel 1580.
Del resto, l'uomo più saggio che ci sia mai stato, Socrate, quando gli fu domandato che cosa sapeva, rispose che sapeva di non sapere nulla. Egli confermava la cosiddetta "dottrina dell'ignoranza", il "sapere di non sapere": la maggior parte di quello che sappiamo è la minima parte di quello che ignoriamo; anche quello che pensiamo di sapere è una parte assai piccola della nostra ignoranza.
Con tale dottrina, Montaigne vuole riportare l'uomo all'ignoranza nella quale già si trova, essendo questa la sua condizione naturale. L'apparente paradosso è che è proprio tramite la cultura che sappiamo di non sapere.
Ma facciamo un ulteriore passo, esaminando ancora una volta con Montaigne l'uomo nella sua condizione più elevata e al più alto grado di saggezza a cui possa arrivare.
Chiunque cerca qualcosa, arriva a questo punto: o dice che l'ha trovata, o che non si può trovare, o che ne è ancora in cerca. Tutta la filosofia, e quindi tutta la saggezza umana, è divisa in queste tre sezioni. Il suo scopo è cercare la verità, la scienza, la certezza.
I dogmatici (peripatetici, epicurei, stoici ecc.) hanno creduto di averla trovata. Essi, si solito, costruiscono scienze e le trattano come conoscenze sicure.
Gli accademici ("Carneade chi era costui?"), sempre più scettici, hanno sostenuto che la verità non potesse essere concepita con i nostri mezzi [Es. "Quod nihil scitur", "Che non si sa nulla" di Francisco Sanches, in epoca moderna (1551-1623)].
Gli scettici (Pirrone, Sesto Empirico) dicono di essere ancora in cerca della verità. Essi ritengono che coloro che pensano di averla trovata s'ingannano infinitamente; e c'è ancora vanità in quella seconda posizione che afferma che le forze umane non sono capaci di raggiungerla. Infatti, l'ignoranza, per essere totale, bisogna che ignori anche se stessa.
CIT. Chi pensa che non si possa saper nulla, non sa nemmeno se si può saper tanto da poter dire di non saper nulla. (Lucrezio)
Il pirronismo è dunque lo scetticismo autentico: non trova la verità, né dice che non si può trovare, ma non smette mai di cercare; i pirroniani ondeggiano, dubitano e cercano, non si ritengono sicuri di nulla, non rispondono di nulla. Essi sospendono il giudizio e lo mantengono in equilibrio, senza la minima inclinazione in un senso o nell'altro.
Il vero privilegio degli scettici è dunque la libertà dalle costruzioni del dogmatismo, (CIT.) … tanto più liberi e indipendenti in quanto hanno piena autonomia di giudizio. (Cicerone)
Questa posizione del loro giudizio, che accoglie tutto senza adesione e consenso, è l'unico modo per gli scettici di raggiungere l'atarassia, una condizione di vita placida, calma, esente dalle emozioni che riceviamo a causa dell'opinione "forzata" e della conoscenza che pensiamo di avere delle cose.
Ora, è possibile vivere senza dogmi, senza cioè convinzioni forti?
Per i dogmatici, ma anche per la maggior parte della gente comune, questo non è possibile, per cui la vita degli scettici risulta essere invivibile. Da questa opinione deriva la caricatura che molti filosofi e storici della filosofia hanno fatto di Pirrone. Essi lo descrivono stupido e immobile, dedito a un modo di vita selvatico e asociale, che si lascia urtare dai carri, corre incontro ai precipizi, si rifiuta di adattarsi alle leggi.
CIT. (Dal "Dizionario storico-critico" di Pierre Bayle, 1647-1706) … risulta che Pirrone non avrebbe fatto alcuna scelta e che né un carro né un precipizio l'avrebbe indotto a fare un passo indietro o a scostarsi, al punto che gli amici, che lo accompagnavano, più volte gli salvarono la vita. Non c'è nessuna verosimiglianza a sostenere che Pirrone fosse folle sino a questo punto…
Come si comporterà, allora, lo scettico?
Dal punto di vista pratico, lo scettico si fida delle apparenze, anche se non ritiene che siano la cosa in sé. ES. (Il bianco, dal punto di vista fisico, è formato dai sette colori dell'iride; il colore, in realtà, è dato dalla luce, quindi non esiste in sé. Tuttavia, non posso negare che i miei occhi vedano "il bianco").
Dal punto di vista morale, etico, lo scettico usa due guide: le inclinazioni o affezioni naturali e le consuetudini della morale pubblica.
Negli impulsi e nelle costrizioni delle passioni, lo scettico non si abbandonerà mai all'eccesso, ma alla metriopàtheia (patire moderatamente).
Lo scettico vive quindi come gli altri, dal punto di vista esteriore, ma senza accompagnare la conformità ad una convinzione o opinione. Sono gli altri a scegliere per lui.
Lo scetticismo, secondo una metafora "medica" di Sesto Empirico, è come una purga che viene espulsa con i cattivi umori (non c'è dogmatismo nello scetticismo).
Montaigne porta lo scetticismo ad argomentazioni ancora più radicali. C'è una contraddittorietà dell'ethos (etica = consuetudine): una varietà di leggi, una pluralità e relatività dei valori morali, sia in senso geografico che cronologico.
Montaigne è fra i primi della modernità ad abbandonare il sogno di una moralità unificata.
CIT. Non vi è cosa in cui il mondo sia così diverso come in fatto di costumi e di leggi. Una cosa qui è abominevole e altrove fa onore, come a Sparta l'abilità nel rubare… I matrimoni fra parenti … L'infanticidio… la comunione delle donne… non vi è nulla di tanto eccessivo che non sia ammesso nell'uso di qualche popolo.
Tutto questo deriva in parte dal fatto che l'uomo ha perso la sua legge naturale.
CIT. E' credibile che vi siano delle leggi naturali… [come negli animali] ma in noi esse sono perdute, poiché questa bella ragione umana s'impiccia di … comandare dappertutto… confondendo l'aspetto delle cose…
Ma è soprattutto riguardo alla teoria della conoscenza, che Montaigne riprende molti temi sulla debolezza degli strumenti umani della conoscenza cari al Sesto Empirico di Schizzi pirroniani. In particolare, il filosofo si concentra su quello che si considera come "l'inizio e la fine della conoscenza umana", il senso, a cui viene riconosciuta la funzione insostituibile di origine del sapere. Ma è proprio a partire dai sensi che si sviluppano i dubbi più radicali.
In primo luogo, ci si chiede se l'uomo sia provvisto di tutti i sensi naturali e si svolge un paragone con le dotazioni animali, che in molti casi appaiono più ricche e più accurate. Noi ci formiamo una verità con il concorso dei nostri cinque sensi, ma forse sarebbe stata necessaria la cooperazione di otto o dieci sensi per cogliere ogni oggetto nella sua vera essenza.
In realtà, l'uomo deve fidarsi di ciò che lo inganna, poiché è frequente la constatazione degli inganni dei sensi. Ognuno può procurarsi quanti esempi vuole, tanto consueti sono gli errori che essi ci arrecano.
Es.: la neve ci appare bianca quando non lo è; un bastone immerso nell'acqua ci appare spezzato e non lo è; per l'eco di una valle, il suono di una tromba sembra venirci incontro, mentre viene da un chilometro indietro; la stessa nave, lontano appare piccola e ferma, da vicino grande e in movimento; la stessa torre, lontano appare tonda, da vicino quadrangolare.
Inoltre, la rappresentazione che abbiamo degli oggetti cambia secondo le circostanze: se ci troviamo in uno stato di salute o di malattia, in rapporto all'età, se l'oggetto si ama o si odia, se siamo affamati o sazi, se siamo ubriachi o sobri, se si è paurosi o coraggiosi, se si è addolorati o contenti.
Tutte queste realtà scoprono l'inquietante prospettiva di un mondo in cui sogno e veglia, illusione e realtà potrebbero continuamente scambiarsi le parti, senza che il soggetto se ne renda mai conto. E', inoltre, fallace la pretesa di affidarsi al paradigma della "normalità", distinguendo gli stati attendibili da quelli inaffidabili o, aristotelicamente, la condizione normale da quella alterata del soggetto senziente: l'uomo non può essere al di sopra di qualsiasi circostanza, di qualsiasi stato; anche in condizioni normali è il soggetto a percepire, a trasformare la realtà secondo il proprio equilibrio. (L'uomo si trova sempre in qualche circostanza: non esiste "the view from nowhere", lo "sguardo da nessun luogo" di Thomas Nagel, per intenderci).
Ai fini del giudizio sui sensi, bisognerebbe che noi andassimo innanzitutto d'accordo con le bestie (nei modi del percepire), tra noi stessi e all'interno dello stesso individuo in circostanze diverse. Noi percepiamo le cose di volta in volta differenti, a seconda di come siamo e di come ci sembrano, e questo rende di fatto impraticabile l'assunzione di un criterio di giudizio.
Si arriva, in questo modo, al punto cruciale delle argomentazioni scettiche: la sensazione che abbiamo delle cose non si applica direttamente agli oggetti esterni, ma essa è percepita esclusivamente tramite i nostri sensi che non sono in grado di cogliere l'oggetto al di fuori di noi. Pertanto, l'apparenza non appartiene agli oggetti esterni, ma alla nostra rappresentazione, che è cosa diversa dall'oggetto. Perciò, si possono giudicare solo le apparenze, non gli oggetti in se stessi. Se poi si dice che l'apparenza ha un nesso di somiglianza con l'oggetto, ci si chiede: come può la ragione essere sicura di questa somiglianza, dal momento che non ha alcun rapporto diretto con gli oggetti al di fuori? In altre parole, colui che non conosce Socrate, vedendo il suo ritratto, non potrà dire che gli somiglia.
Lo scetticismo mette in discussione anche un altro caposaldo della ragione umana: la possibilità di disporre di un criterio per distinguere le rappresentazioni autentiche da quelle fallaci. Montaigne smonta i criteri dei dogmatici, assimilando questo problema, di fatto insolubile, a quello del giudice imparziale, capace di dirimere le controversie religiose.
La ricerca di un giudice imparziale è destinata al fallimento. L'imparzialità viene a cadere se al giudice gli togliamo tutte le parzialità proprie di un essere umano, non ultime quelle dei sensi. Inoltre, per verificare la validità di un metro di giudizio, ci si dovrebbe valere di una dimostrazione, che a sua volta richiederebbe un criterio di giudizio: eccoci dunque al "circolo" vizioso. La ragione potrebbe servire per dirimere le controversie dovute ai sensi, ma il dato intellettuale non potrà essere stabilito senza un'altra ragione e così via risalendo all'indietro fino all'infinito.
Ecco, in tal modo, scossa la fiducia che la ragione ripone nella propria capacità di conseguire in modo autonomo la verità, non solo dei propri risultati, ma anche dei propri mezzi (i sensi, prima di tutto).
Montaigne si libera così dei dogmi filosofici, ma non dei dogmi del cristianesimo. Vi è, infatti, un'articolazione tra scetticismo e cristianesimo: il primo libera la mente dai dogmi filosofici, mentre il secondo accetta quei dogmi che vengono da una rivelazione superiore.
L'uomo vorrebbe asservire Dio al suo intelletto, circoscriverlo nell'ambito della sua ragione. Mentre nello scettico, la "vita senza dogmi", con i suoi impliciti connotati di conformismo esteriore e di tradizionalismo, costituisce il preambolo più idoneo all'accettazione del dato religioso. Scossa la fiducia nella ragione, il dubbio scettico acquista ora la funzione di presentare.
CIT. … l'uomo nudo e vuoto, pronto a riconoscere la sua naturale debolezza e a ricevere dall'alto qualche forza esterna, sprovvisto di scienza umana e perciò tanto più adatto ad accogliere in sé quella divina, incline ad annullare il proprio giudizio per fare posto alla fede.
Inoltre, per il cattolico Montaigne, questa rinuncia all'uso della ragione nelle materie di fede deve spingersi sino al riconoscimento dell'autorità ecclesiastica (quella della Chiesa di Roma, per intenderci). In questo modo, l'interpretazione di Montaigne dello scetticismo, che attacca le pretese della ragione, diviene anche lo strumento della Controriforma contro, per esempio, le argomentazioni luterane del libero esame.
Il linguaggio scettico è poi il più adatto agli scopi del cristianesimo. Gli slogan dello scetticismo pirroniano sono: "io non sostengo nulla", "né l'uno né l'altro", "non capisco", "nulla sembra vero che non possa sembrar falso", "io ignoro", "io dubito". La loro parola più usata è epéco, cioè "io sospendo, non mi muovo". Lo scettico non dice: "io so", né "io non so"; ma si chiede: "che cosa so?".
In altre parole, i filosofi pirroniani non possono esprimere la loro concezione generale in alcuna forma di parlare, poiché occorrerebbe loro un nuovo linguaggio. Quello corrente, infatti, è tutto formato di proposizioni affermative, di cui essi sono nemici.
Ma è proprio questo modo di parlare affermativo che per un uomo cristiano è fuorviante (frasi del tipo "Dio non può morire", "Dio non può contraddirsi"), poiché non è esatto rinchiudere la potenza divina sotto le leggi della nostra parola o della nostra logica.
Più adatta ad esprimere la divinità è la teologia negativa, che non pronuncia su Dio nulla di affermativo. Di tutte le opinioni umane su Dio, la più verosimile è quella che lo riconosce come una potenza incomprensibile.
Si ricordi il Dio Ignoto di San Paolo: fra tutte le religioni che si onoravano ad Atene, quella dedicata a una divinità occulta e sconosciuta gli sembrò la più giustificabile.
La conclusione alla quale arriva Montaigne è allora inevitabile: l'uomo non può che essere uomo, poiché è impossibile che egli s'innalzi al di sopra di sé e dell'umanità come pretenderebbero molti filosofi, ad esempio Seneca,
CIT. Che cosa vile e abietta è l'uomo, se non s'innalza al di sopra dell'umanità!
Desiderio questo veramente assurdo e inutile per Montaigne: l'uomo non può vedere che con i suoi occhi, né afferrare che con le sue capacità.
E' possibile, tuttavia, invocare dall'alto il soccorso di Dio che l'uomo da sé non può darsi. E' questa l'unica possibilità per l'uomo che vuole "elevarsi": abbandonare i suoi mezzi (la ragione e i sensi), rinunciandovi.
CIT. Sta alla nostra fede cristiana, non alla … virtù stoica, aspirare a questa divina e miracolosa metamorfosi.
In tal modo, il filosofo francese salva la fede, ma, per certi versi, condanna la teologia perché strumento "umano".
Tuttavia, nonostante il richiamo alla fede cattolica, i connotati di conformismo esteriore e di tradizionalismo della sua filosofia (abbiamo visto il suo riconoscimento dell'autorità ecclesiastica della Chiesa di Roma), il suo voler essere strumento nelle mani della Controriforma contro gli argomenti luterani, Montaigne sarà messo all'Indice perché considerato pericoloso per l'ortodossia.
L'atteggiamento dei controriformisti contro l'opera di Montaigne è in parte giustificato dalle parole dello stesso filosofo quando riconosce una certa pericolosità nella filosofia e una certa debolezza nello spirito umano.
CIT. Quanto alla libertà delle opinioni filosofiche … è cosa… a proposito della quale si trovano parecchi pareri che è meglio tacere che render noti agli spiriti deboli.
E ancora
CIT. Il nostro spirito è uno strumento mobile, pericoloso e temerario…Si ha ragione di porre allo spirito umano barriere più strette possibile…Vi sono poche anime tanto …forti…che possano … vogare nella libertà del loro giudizio al di là delle opinioni comuni. E' più opportuno metterle sotto tutela. E' una spada pericolosa lo spirito, per il suo stesso possessore…
Nonostante l'opinione di ciascuno di noi, è fuor di dubbio che a volte la filosofia, in particolare lo scetticismo, possa fuorviare l'animo umano.
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CONCLUSIONE
La storia dello scetticismo non finisce con Montaigne e davvero buona parte della filosofia moderna può considerarsi il prodotto dello scambio dialettico tra la rivisitazione dello scetticismo greco e gli innumerevoli tentativi di superarlo. Tale storia comprende filosofi come Cartesio, Charron, gli esponenti del libertinismo erudito del XVIII secolo, sino a Hume, Spinoza, Kierkegaard, e getta la sua ombra fino ai giorni nostri.
Oggi, naturalmente, il bersaglio non è più il dogmatismo della filosofia o delle false credenze religiose, ma le certezze della scienza neopositivista. Dopo aver perso per sempre l'"innocenza religiosa", di cui parlano molti filosofi contemporanei, oggi sembriamo aver perso anche quella "scientifica". E in questo nuovo scenario non è facile (almeno personalmente) non sentirsi, almeno un poco, pirroniani.
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Di cristina Giuliano